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Robert Heinlein: Guerra nell'infinito

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Robert Heinlein Guerra nell'infinito

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Don Harvey è nato nello spazio, a bordo di un’astronave in caduta libera oltre l’orbita degli asteroidi, da padre terrestre e da madre di cittadinanza venusiana, si ritrova senza patria quando le colonie di Venere decidono di ribellarsi allo sfruttamento della Federazione Terrestre. È la storia della prima guerra cosmica, sullo sfondo di una grande trasformazione del sistema solare, in orbita intorno alla luna si sta costruendo il Cercatore di Orizzonti. La nave interstellare che porterà uomini e donne in un viaggio di centinaia d’anni, generazioni e generazioni su un mondo artificiale, verso altri sistemi stellari; su Marte e su Venere, gli indigeni intelligenti che i terrestri hanno trovato al loro arrivo sui pianeti gemelli ricordano epoche remotissime, nelle quali la Terra, Marte, Venere e i satelliti di Giove facevano parte di un grandioso Impero… Don Harvey, strappato al suoi studi, alla vita che conosceva, dallo scoppio della guerra, sfugge miracolosamente alla distruzione di Circum-Terra, la stazione spaziale che collega la Terra a Luna City e ai pianeti, e finisce su Venere, tra le paludi e le giungle del pianeta nebbioso, braccato da tutti i belligeranti perche, suo malgrado, egli è latore di un messaggio così importante che, da solo, potrebbe cambiare la storia del Sistema Solare.

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Mangiare un vieni-sopra cucciolo? Si sentì improvvisamente un cannibale, e per la seconda volta in un giorno solo cominciò a comportarsi come un terricolo nello spazio. Deglutì, e riuscì a controllarsi, ma non poté più toccare un altro boccone.

Guardò di nuovo la pista. Venusberg scomparve, sostituita da un uomo degli occhi stanchi, che cominciò a roteare delle torce infuocate, eseguendo ogni tipo di prodigioso esercizio. Don non si divertì a quello spettacolo; il suo sguardo abbandonò il giocoliere, e vagabondò per la sala. A tre tavoli di distanza un uomo incontrò il suo sguardo, e poi distolse lo sguardo, con aria disinvolta. Don notò il particolare, ci pensò un poco, poi squadrò attentamente l’uomo, e decise di averlo riconosciuto.

«Dottor Jefferson?»

«Sì, Don?»

«Per caso lei non conosce un drago venusiano che si fa chiamare ‘Sir Isaac Newton’?» Don aggiunse con una breve serie di sibili la versione indigena del vero nome del venusiano.

«Non farlo!» disse seccamente l’uomo.

«Che cosa non devo fare?»

«Non rivelare pubblicamente la tua origine in un momento come questo, se non sei costretto a farlo. Perché mi hai chiesto se conosco questo, uh, ‘Sir Isaac Newton’?» Il dottore tenne la voce bassa, muovendo appena le labbra.

Don gli raccontò il casuale incontro alla stazione Gary.

«Quando sono passato oltre, ho avuto la certezza che un agente della sicurezza mi stesse sorvegliando. E ora lo stesso uomo è seduto a quel tavolo, solo che non indossa più l’uniforme.»

«Ne sei sicuro?»

«Mi sembra di sì.»

«Uhm… potresti sbagliarti. Oppure, lui potrebbe essere qui solo per caso… fuori servizio… benché non mi sembri possibile che un poliziotto della sicurezza frequenti un luogo simile, non con lo stipendio che riceve. Ascolta… non prestargli più alcuna attenzione, e non parlare più di lui. E non parlare del drago, né di qualsiasi altra cosa vagamente imparentata con Venere e i venusiani. Comportati semplicemente come se ti divertissi un mondo, e non avessi alcun pensiero. Ma fa’ attenzione a tutto quel che io dico.»

Don cercò di obbedire alle istruzioni, ma era difficile tenere la mente concentrata su cose leggere e piacevoli. Anche quando le ballerine ricomparvero, Don provò il desiderio di voltarsi a osservare l’uomo che aveva guastato la festa. Ma Don riuscì a controllarsi, e a fissare i costumi succinti delle ballerine con sufficiente entusiasmo. Dopotutto, alla scuola non aveva mai potuto assistere a spettacoli del genere; la tendenza della società era formalmente puritana, là dove si formavano le nuove leve, anche se i costumi erano nelle città, come aveva affermato il dottor Jefferson, decadenti. Il piatto di gregari al forno fu portato via, e il dottor Jefferson ordinò per Don qualcosa che si chiamava ‘Monte Etna’. Aveva realmente la forma di un vulcano, e dalla punta usciva un filo di vapore. Don infilò un cucchiaio in quella massa, e scoprì che si trattava di fuoco e ghiaccio, e assaliva il suo palato con sensazioni violentemente in conflitto. Si domandò come qualcuno potesse trovare gradevole un piatto simile. Per pura cortesia, assaggiò un altro boccone. Dopo qualche minuto, scoprì di avere mangiato tutto, e di essere dispiaciuto che non ce ne fosse più.

Nell’intervallo dello spettacolo Don cercò di domandare al dottor Jefferson quale fosse la sua vera opinione sulla generale paura di una guerra. Il dottore spostò il discorso, con estrema fermezza, sul lavoro dei genitori di Don, e soffermò le sue considerazioni sul passato e sul futuro del Sistema.

«Non angustiarti troppo del presente, figliolo. Inconvenienti, semplici inconvenienti… preliminari necessari per il consolidamento del Sistema Solare; tra cinquecento anni, gli storici non li ricorderanno neppure. Quello che per noi è uno spaventoso nubifragio, per la storia non è che una nuvoletta passeggera. Tra cinquecento anni esisterà il Secondo Impero… e allora sarà composto di sei pianeti.»

«Sei? Dottore, lei non crederà davvero che un giorno ci sarà possibile di fare qualcosa di utile con Giove e Saturno? Oh… capisco. Lei allude alle lune gioviane.»

«No, voglio proprio parlare di sei pianeti primari. Sposteremo Plutone e Nettuno all’interno del sistema, vicino al grande fuoco del Sole, e faremo allontanare dal Sole l’arido Mercurio, in modo che la sua superficie possa raffreddarsi.»

L’idea di spostare dei pianeti nel vuoto siderale colpì Don. Pareva un’idea folle, assolutamente impossibile, ma lasciò correre, poiché il suo ospite era un uomo il quale affermava che tatto era possibile.

«Il genere umano ha bisogno di spazio, di molto spazio,» proseguì il dottor Jefferson. «Dopotutto, Marte e Venere sono abitati da razze indigene intelligenti; non possiamo comprimere ancora molto queste razze, per fare spazio agli uomini, se non vogliamo provocare un genocidio… e non siamo matematicamente sicuri della direzione che potrebbe prendere questo genocidio, neppure nei confronti dei marziani. Cosa ne sappiamo della loro strana intelligenza? Abbiamo solo grattato la superficie, ragazzo mio, ma il nocciolo della loro antica civiltà ci è segreto. Ma la ricostruzione del sistema solare è solo un problema d’ingegneria… un problema che potrà essere risolto facilmente, e che non è nulla in confronto a tutte le altre cose che potremo realizzare. Tra cinque secoli ci saranno più esseri umani della Terra all’esterno di questo sistema, nelle immensità degli spazi interstellari, che all’interno; noi sciameremo intorno a ogni stella di tipo G di questa regione della Via Lattea. Sai che cosa farei se avessi la tua età, Don? Mi assicurerei un posto a bordo del Cercatore di Orizzonti. »

Don annuì.

«L’idea mi attira.» Il Cercatore di Orizzonti , l’incrociatore interstellare progettato per un viaggio di sola andata, era un nome familiare per tutti gli abitanti del Sistema Solare. La sua costruzione avveniva sulla Luna, e nello spazio circumlunare, da molti anni… da molto prima della nascita di Don. Dapprima uno scheletro nello spazio, poi una struttura sempre più vasta e sempre più complessa; presto per la nave delle stelle sarebbe giunto il momento della partenza. Tutti, o quasi tutti i giovani della generazione di Don, dai sedicenni con gli occhi pieni di stelle ai ventunenni ancora carichi di speranze, avevano sognato, almeno una volta nella loro vita, di partire con la missione interstellare.

«Naturalmente,» aggiunse il dottor Jefferson, «Per partire, dovresti avere una moglie.» Indicò la pista, che si stava riempiendo di nuovo. «Prendiamo per esempio quella bionda laggiù. È una candidata probabile… per lo meno, sembra piena di salute.»

Don guardò la giovane donna, che si stava esibendo sulla pista, e sorrise, sentendosi un uomo di mondo.

«Forse a lei non importa niente dei pionieri. Mi sembra abbastanza felice così com’è.»

«Impossibile dirlo con certezza, se non glielo chiedi. Ecco.» Il dottor Jefferson chiamò con un gesto il maître d’hotel ; una banconota cambiò mano. Dopo qualche minuto, la bionda si avvicinò al loro tavolo, ma non si mise a sedere. Era una cantante, e cominciò a sussurrare all’orecchio di Don, con l’aiuto dell’orchestra, sentimenti e situazioni che lo avrebbero messo in imbarazzo anche se espressi privatamente. Dopotutto, il sesso non era stato una delle materie d’insegnamento della scuola, né c’erano state insegnanti abbigliate in abiti come quelli, né dotate di una voce così calda e invitante. Don non si sentì più un uomo di mondo, anzi, cominciò a provare una sensazione di calore in tutto il viso. Immaginò che le sue orecchie fossero diventate paonazze, e confermò la sua risoluzione di non portare quella femmina sulle stelle. Malgrado la decisione, l’esperienza gli piacque immensamente; e qualcosa si mosse nelle sue vene, a quella vicinanza eccitante.

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