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Robert Heinlein: Guerra nell'infinito

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Robert Heinlein Guerra nell'infinito

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Don Harvey è nato nello spazio, a bordo di un’astronave in caduta libera oltre l’orbita degli asteroidi, da padre terrestre e da madre di cittadinanza venusiana, si ritrova senza patria quando le colonie di Venere decidono di ribellarsi allo sfruttamento della Federazione Terrestre. È la storia della prima guerra cosmica, sullo sfondo di una grande trasformazione del sistema solare, in orbita intorno alla luna si sta costruendo il Cercatore di Orizzonti. La nave interstellare che porterà uomini e donne in un viaggio di centinaia d’anni, generazioni e generazioni su un mondo artificiale, verso altri sistemi stellari; su Marte e su Venere, gli indigeni intelligenti che i terrestri hanno trovato al loro arrivo sui pianeti gemelli ricordano epoche remotissime, nelle quali la Terra, Marte, Venere e i satelliti di Giove facevano parte di un grandioso Impero… Don Harvey, strappato al suoi studi, alla vita che conosceva, dallo scoppio della guerra, sfugge miracolosamente alla distruzione di Circum-Terra, la stazione spaziale che collega la Terra a Luna City e ai pianeti, e finisce su Venere, tra le paludi e le giungle del pianeta nebbioso, braccato da tutti i belligeranti perche, suo malgrado, egli è latore di un messaggio così importante che, da solo, potrebbe cambiare la storia del Sistema Solare.

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La sua reazione alla giovane donna fu semplice: si trattava, così gli parve, della visione più bella sulla quale i suoi occhi si fossero mai posati, sia nella persona, sia nello splendido costume topless che rivelava con dovizia di affascinanti particolari le meraviglie di quella persona. Il dottor Jefferson si accorse dell’espressione di Don, e ridacchiò.

«Non consumare tutto il tuo entusiasmo, figliolo. Quelle che abbiamo pagato per vedere appariranno là.» Con un gesto della mano, indicò la pista al centro del ristorante. «Vuoi cominciare con un cocktail?»

Don disse che pensava di no, grazie.

«E allora accomodati. Sei un uomo, e la visione di qualche bella rotondità femminile non ti potrà fare altro che bene. Un solo assaggio non dovrebbe produrre danni permanenti, comunque. Ma trascurando questo argomento… che ne diresti se ordinassi io la cena?»

Don si dichiarò d’accordo. Mentre il dottor Jefferson si consultava con la principessa prigioniera intorno alle qualità e ai meriti del menu, Don, dopo essersi ampiamente appagato la vista con quella rosea e rigogliosa immagine di pura femminilità, si guardò intorno. La sala simulava un ambiente aperto, a tarda sera; in alto, nella volta violetta del ‘cielo’, cominciavano a tremolare guizzanti le prime stelle. Un’alta parete di mattoni circondava la sala, nascondendo l’inesistente prospettiva e unendo con incredibile realismo il pavimento al falso cielo. Sopra la parete si vedevano spuntare le fronde degli alberi, verdi meli che stormivano nella brezza del tramonto. Un antico pozzo, con la sua carrucola e il secchio, si trovava al di là dei tavolini, sul lato opposto della sala; Don vide un’altra «principessa prigioniera», anche lei in topless , anche lei con una gonna microscopica e sufficientemente trasparente per rivelare i contorni, avvicinarsi al pozzo, chinarsi graziosamente sopra di esso, scoprendo anche quel poco di pelle che la microgonna aveva tenuto nascosto, cominciare a girare la carrucola, e togliere un secchiello d’argento dal secchio, un secchiello pieno di ghiaccio, che conteneva una bottiglia incartata.

Ai bordi della pista, proprio di fronte a loro, un tavolino era stato tolto per dare spazio a una grossa capsula trasparente a ruote. Don non ne aveva mai vista una simile, ma riconobbe subito la sua funzione; si trattava di una «carrozzella» da marziano, una unità portatile a condizionamento d’aria che serviva a fornire l’aria fredda e rarefatta necessaria a un indigeno marziano. Era possibile vedere indistintamente l’occupante, con il suo corpo fragile sostenuto da un servotelaio metallico articolato, un aiuto necessario per adattarsi alla ben più forte gravità del terzo pianeta. Le pseudoali della creatura erano malinconicamente pendule, e il marziano non si muoveva. Don provò pena per lui.

Anni prima, ancora bambino, aveva incontrato dei marziani sulla Luna, ma il debolissimo campo gravitazionale della Luna era ancora inferiore a quello di Marte; non li trasformava in fragili minorati, paralizzati da un campo gravitazionale troppo doloroso per il loro schema evolutivo. Era difficile e pericoloso per un marziano correre il rischio di scendere sulla Terra; Don si chiese quale motivo avesse indotto quel particolare marziano a sostenere quella prova. D’altra parte, i marziani erano molto misteriosi e riservati; e si raccontavano migliaia di storie sui loro nidi e sulla loro mentalità, tante da confondere anche il più acuto osservatore. Probabilmente, quel marziano si trovava in missione diplomatica… oppure no?

Il dottor Jefferson congedò la cameriera, che si allontanò lanciando un’occhiata compiaciuta a Don — evidentemente lusingata dell’ammirazione che aveva saputo suscitare nel giovane; il dottore sollevò lo sguardo, e notò che Don stava guardando il marziano. Don disse:

«Mi stavo chiedendo perché sia venuto qui. Non certo per mangiare.»

«Probabilmente, vuole vedere il pasto degli animali. I marziani sono curiosi, per certi spettacoli. Questo è, in parte, il motivo che spinge anche me, Don. Guardati intorno attentamente: non vedrai mai più uno spettacolo simile.»

«No, penso di no… non su Marte.»

«Non è questo che intendo dire. Sodoma e Gomorra, ragazzo mio… ormai marce sotto l’aspetto opulento, scivolano sempre più verso l’abisso. Forse sono già state pesate e giudicate. Forse questa è la fine di un Impero… e forse è capitato lo stesso al Primo Impero, e ne è rimasto solo un ricordo. Ma io parlo troppo. Divertiti; non durerà molto.»

«Dottor Jefferson… a lei piace vivere qui?»

«A me? Io sono decadente come la città che infesto; è il mio elemento naturale. Ma questo non mi impedisce di distinguere un’aquila da una rana.»

L’orchestra, che fino a quel momento aveva suonato in sottofondo, apparentemente senza scaturire da nessuna origine in particolare, d’un tratto tacque, e il sistema sonoro del locale annunciò, «Notiziario!». Nello stesso tempo, il cielo violetto in alto si fece nero come l’inchiostro, e delle lettere illuminate cominciarono a scorrere su quel fondo nero. La voce portata dall’impianto acustico lesse ad alta voce le parole che si formavano e passavano in lenta processione sul soffitto: BERMUDA: UFFICIALE: IL MINISTERO DEGLI AFFARI COLONIALI HA ANNUNCIATO IN QUESTO MOMENTO CHE IL COMITATO PROVVISORIO DELLE COLONIE VENUSIANE HA RESPINTO LA NOSTRA NOTA. UNA FONTE VICINA AL PRESIDENTE DELLA FEDERAZIONE AFFERMA CHE QUESTO SVILUPPO DELLA SITUAZIONE ERA ATTESO, E NON DEVE COSTITUIRE MOTIVO DI ALLARME.

Le luci si accesero, e la musica ricominciò. Le labbra del dottor Jefferson erano tese in un sorriso senza allegria.

«Com’è appropriato!» fu il suo commento. «E com’è scelto bene il tempo! Lo scritto sulla parete!»

Don fece per commentare l’inatteso evento, ma fu distratto dall’inizio dello spettacolo. La pista davanti a loro era affondata e scomparsa, senza che nessuno lo notasse, durante il notiziario. Ora, dal pozzo buio così creato, venne una nuvola cangiante, galleggiante, illuminata dall’interno di guizzi di porpora e di rosso fiamma e di rosa. La nube parve sciogliersi, e Don vide che la pista era di nuovo al suo posto, e popolata di ballerini. C’era una montagna, sullo sfondo.

Il dottor Jefferson aveva detto bene: le ragazze degne di essere guardate si trovavano sulla pista, e non servivano ai tavoli. L’attenzione di Don era così intensa che egli non si accorse che il cibo era stato posato davanti a lui. Il suo ospite gli sfiorò il gomito.

«Mangia qualcosa prima di svenire.»

«Uh? Oh, sì, signore!» Mangiò subito, con entusiasmo e buon appetito, ma con gli occhi fissi sulle ballerine. C’era un uomo nel balletto, che raffigurava Tannhäuser, ma Don non sapeva né si curava di sapere chi volesse rappresentare; lo notò soltanto quando compariva di fronte a quelle splendide donne, impedendo la visione più dettagliata di qualche particolare di quei corpi in agile movimento. Analogamente, mangiò due terzi di quello che era stato messo davanti a lui, senza notare quel che stava mangiando.

Il dottor Jefferson disse:

«Ti piace?»

Don sobbalzò, rifletté un momento, e capì che il dottore stava alludendo al cibo, e non alle ballerine.

«Oh, sì! È squisito.» A questo punto, abbassò lo sguardo sul piatto. «Ma che cos’è?»

«Non riconosci la pietanza? Sono cuccioli di gregari al forno.»

Don impiegò un paio di secondi per ricordare con esattezza cosa fosse un gregario. Quando era stato bambino, ne aveva visti a centinaia… aveva conosciuto quei piccoli bipedi simili a satiri… faunas gregariaus veneris Smythii… ma sul momento non aveva saputo associare il comune nome commerciale con le stupide creature amichevoli che lui e i suoi compagni di gioco, insieme a tutti gli altri coloni di Venere, avevano sempre chiamato «vieni-sopra», a causa della loro cronica abitudine di salire a frotte su di un essere umano, accarezzarlo, fiutarlo, sederglisi sui piedi, e manifestare in centinaia di altri modi il loro insaziabile appetito di affetto fisico.

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