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Robert Heinlein: Guerra nell'infinito

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Robert Heinlein Guerra nell'infinito

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Don Harvey è nato nello spazio, a bordo di un’astronave in caduta libera oltre l’orbita degli asteroidi, da padre terrestre e da madre di cittadinanza venusiana, si ritrova senza patria quando le colonie di Venere decidono di ribellarsi allo sfruttamento della Federazione Terrestre. È la storia della prima guerra cosmica, sullo sfondo di una grande trasformazione del sistema solare, in orbita intorno alla luna si sta costruendo il Cercatore di Orizzonti. La nave interstellare che porterà uomini e donne in un viaggio di centinaia d’anni, generazioni e generazioni su un mondo artificiale, verso altri sistemi stellari; su Marte e su Venere, gli indigeni intelligenti che i terrestri hanno trovato al loro arrivo sui pianeti gemelli ricordano epoche remotissime, nelle quali la Terra, Marte, Venere e i satelliti di Giove facevano parte di un grandioso Impero… Don Harvey, strappato al suoi studi, alla vita che conosceva, dallo scoppio della guerra, sfugge miracolosamente alla distruzione di Circum-Terra, la stazione spaziale che collega la Terra a Luna City e ai pianeti, e finisce su Venere, tra le paludi e le giungle del pianeta nebbioso, braccato da tutti i belligeranti perche, suo malgrado, egli è latore di un messaggio così importante che, da solo, potrebbe cambiare la storia del Sistema Solare.

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L’impiegato gli girò ostentatamente le spalle. Don, sentendosi depresso, fece lo stesso. Ora non sapeva con precisione quale sarebbe stata la sua prossima mossa. Aveva detto al Direttore Reeves che avrebbe pernottato all’Hilton, trattandosi dell’albergo dove la sua famiglia si era fermata anni prima, e l’unico che lui conoscesse di nome. D’altro canto, lui doveva tentare di trovare il dottor Jefferson… «lo zio Dudley»… dato che sua madre aveva annesso tale importanza, alla cosa, da dedicarle un radiogramma separato. Era ancora il primo pomeriggio; decise di depositare i bagagli, e di cominciare la ricerca.

Liberatosi dei bagagli, trovò una cabina di comunicazione vuota, e cercò il numero di codice del dottore, che poi programmò nella macchina. Il visifono del dottore dichiarò cortesemente il proprio rammarico per il fatto che il dottor Jefferson non fosse in casa, e gli chiese di lasciare un messaggio. Don lo stava dettando, quando una voce calda lo interruppe:

«Per te sono in casa, Donald. Dove sei adesso, ragazzo mio?» Lo schermo si illuminò a quel punto, e Don si trovò di fronte ai lineamenti conosciuti del dottor Dudley Jefferson.

«Oh! Sono qui, alla stazione… alla stazione Gary, dottore. Sono appena arrivato.»

«In questo caso, prendi subito un tassi, e vieni qui.»

«Uh, non voglio darle nessun fastidio, dottore. Ho chiamato, perché mia madre ha detto di salutarla.» Segretamente, aveva sperato che il dottor Jefferson fosse stato troppo occupato per perdere del tempo con lui. Benché la sua mentalità lo portasse a disapprovare l’esistenza stessa delle grandi città, lui non voleva passare l’ultima notte sulla Terra in uno scambio di convenevoli con un vecchio amico di famiglia; voleva andare un po’ in giro, e scoprire cosa avesse da offrire quella moderna Babilonia nel campo dei divertimenti, per un giovane turista. La sua lettera di credito era come un peso, in tasca; voleva alleggerire un po’ quel peso.

«Nessun fastidio! Ci vediamo tra qualche minuto. Nel frattempo, io vado a cercare il vitello grasso per ucciderlo. A proposito… non hai per caso ricevuto un pacco da me?» Il dottore parve d’un tratto molto serio.

«Un pacco? No.»

Il dottor Jefferson brontolò qualcosa sul servizio postale, e Don disse:

«Forse mi verrà inoltrato; potrebbe raggiungermi. Era importante?»

«Be’, lasciamo stare; ne parleremo poi. Hai lasciato un recapito?»

«Sì, dottore… l’Hilton.»

«Bene… frusta i cavalli, e vedi quanto tempo ci metti per arrivare qui. Cieli aperti!»

«E atterraggio sicuro, signore.» Tolsero entrambi la comunicazione. Don uscì dalla cabina, e si guardò intorno, alla ricerca di una fermata di tassi. La stazione sembrava più affollata di prima, con una parata di uniformi in bella evidenza… non le uniformi dei piloti e del personale delle astronavi e dei razzi, ma uniformi militari di numerose armi… e sempre, l’onnipresente servizio di sicurezza, le speciali divise di quello speciale corpo di polizia. Don riuscì ad aprirsi un varco tra la folla, scese per una scala mobile, percorse una galleria dal pavimento scorrevole, e finalmente trovò quello che cercava. Davanti ai tassi c’era una lunga coda di clienti in attesa; Don si mise in fila.

Accanto alla fila era distesa la grossa, bizzarra forma sauriana di un «drago» venusiano. Quando Don fu sufficientemente avanzato, nella fila, da trovarsi accanto alla creatura, fischiò educatamente un saluto.

Il drago girò il tremolante peduncolo di un occhio nella sua direzione. Assicurato con cinghie al «petto» della creatura, tra le zampe anteriori e sotto, a portata delle mani-tentacoli, c’era una scatoletta, un voder. I tentacoli si dimenarono sui tasti, e il venusiano gli rispose, servendosi del traduttore meccanico del voder , invece che sibilare nella sua lingua madre.

«Saluto anche lei, mio giovane signore. È piacevole davvero, tra stranieri e in terra straniera, udire i suoni che si sono uditi nell’uovo.» Don notò, con piacere, che l’alieno aveva un accento distintamente londinese, nell’uso della sua macchina.

Con una veloce successione di sibili, espresse i suoi ringraziamenti, e la speranza che il drago potesse morire piacevolmente.

Il venusiano lo ringraziò, ancora servendosi del voder , e aggiunse:

«Per quanto il suo accento, possa essere affascinante, vorrebbe usarmi la squisita cortesia di parlare nella sua lingua, affinché io possa fare pratica di essa?»

Don sospettò che la modulazione dei suoi sibili fosse così atroce da rendere difficilmente comprensibili al venusiano le sue parole; immediatamente, cominciò a esprimersi in parole umane.

«Io mi chiamo Don Harvey,» rispose, e sibilò di nuovo… solo per fornire il suo nome venusiano, «Nebbia sulle Acque»; il nome era stato scelto da sua madre, e Don non vedeva niente di buffo in esso.

E neppure il drago. Egli sibilò per la prima volta, per annunciare il suo nome, e aggiunse, servendosi del voder :

«Sono chiamato ‘Sir Isaac Newton’.» Don capì che il venusiano, con questa etichetta, seguiva la comune usanza dei draghi di acquisire, come nome di comodo, il nome di qualche umano della Terra ammirato da colui che sceglieva di usarlo.

Don avrebbe voluto chiedere a «Sir Isaac Newton» se per caso egli conoscesse la famiglia di sua madre, ma la coda si stava muovendo rapidamente, e il drago era sdraiato, immobile, senza fare alcuno sforzo per proseguire; così Don fu costretto a spostarsi, per non perdere il posto. Il venusiano seguì il suo movimento con un occhio oscillante, e sibilò per esprimere la speranza che anche Don potesse morire piacevolmente.

Ci fu un’interruzione, nel flusso di tassi automatici che si avvicinava alla fermata; un camion chiuso, con conducente umano, si fermò e fece uscire una scaletta. Il drago si rizzò sulle sue sei solide gambe, e salì a bordo. Don sibilò un saluto… e improvvisamente si accorse, con spiacevole intensità, che un agente della sicurezza gli stava dedicando un’insolita e nettissima attenzione. Fu lieto di poter salire a bordo del suo tassi automatico, e di chiudere subito dopo la copertura.

Compose sul disco il codice dell’indirizzo prescelto, e si appoggiò allo schienale. Il piccolo veicolo partì, salì una breve rampa, attraversò una galleria di carico, e salì su un ascensore automatico. Dapprima Don cercò di seguire con attenzione il percorso, ma le incredibili complicazioni dell’immenso formicaio chiamato «Nuova Chicago» avrebbero provocato violenti attacchi di fegato a un esperto topologo; così, rinunciò all’impresa. Il tassi automatico pareva sapere benissimo dove stava andando e, senza dubbio, il cervello elettronico dal quale l’unità-robot del tassi riceveva gli ordini doveva saperlo, e doveva lanciare i segnali corretti alla macchina. Don passò il resto del viaggio meditando sul fatto che il biglietto non gli fosse stato ancora consegnato, preoccupandosi della sgradita attenzione dell’agente di sicurezza, e, finalmente, ponendosi delle domande sul pacco che avrebbe dovuto consegnare al dottor Jefferson. Quest’ultimo problema non lo preoccupava affatto; semplicemente, gli dava fastidio l’idea che la posta si perdesse. Sperò che il signor Reeves si rendesse conto che tutta la posta non inoltrata entro il pomeriggio avrebbe dovuto seguirlo fino a Marte.

Poi ripensò a «Sir Isaac». Era simpatico imbattersi in qualcuno di casa, in un luogo così pieno di stranieri.

L’appartamento del dottor Jefferson era sotterraneo, a una notevole profondità, in uno dei quartieri più costosi della città. Don non riuscì quasi ad arrivarci; il tassi si era fermato davanti alla porta dell’appartamento, ma quando il giovane aveva cercato di uscire, la porta non si era aperta. Questo gli aveva ricordato che prima doveva pagare l’importo della corsa, che era indicato dal tassametro… e in quel momento aveva scoperto di avere commesso l’incredibile ingenuità di noleggiare un veicolo automatico senza avere le monete necessarie per soddisfare il tassametro. Era sicuro che il piccolo veicolo, intelligente com’era, non si sarebbe degnato neppure di annusare la sua lettera di credito. Sconsolato, stava già aspettando che la macchina lo recapitasse direttamente alla più vicina stazione di polizia, quando venne salvato dall’apparizione del dottor Jefferson.

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