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Robert Heinlein: Guerra nell'infinito

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Robert Heinlein Guerra nell'infinito

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Don Harvey è nato nello spazio, a bordo di un’astronave in caduta libera oltre l’orbita degli asteroidi, da padre terrestre e da madre di cittadinanza venusiana, si ritrova senza patria quando le colonie di Venere decidono di ribellarsi allo sfruttamento della Federazione Terrestre. È la storia della prima guerra cosmica, sullo sfondo di una grande trasformazione del sistema solare, in orbita intorno alla luna si sta costruendo il Cercatore di Orizzonti. La nave interstellare che porterà uomini e donne in un viaggio di centinaia d’anni, generazioni e generazioni su un mondo artificiale, verso altri sistemi stellari; su Marte e su Venere, gli indigeni intelligenti che i terrestri hanno trovato al loro arrivo sui pianeti gemelli ricordano epoche remotissime, nelle quali la Terra, Marte, Venere e i satelliti di Giove facevano parte di un grandioso Impero… Don Harvey, strappato al suoi studi, alla vita che conosceva, dallo scoppio della guerra, sfugge miracolosamente alla distruzione di Circum-Terra, la stazione spaziale che collega la Terra a Luna City e ai pianeti, e finisce su Venere, tra le paludi e le giungle del pianeta nebbioso, braccato da tutti i belligeranti perche, suo malgrado, egli è latore di un messaggio così importante che, da solo, potrebbe cambiare la storia del Sistema Solare.

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Il dottore gli diede le monete necessarie per pagare la corsa, e lo fece entrare nell’appartamento.

«Non pensarci più, ragazzo mio. A me succede almeno una volta la settimana. Il sergente del commissariato di quartiere tiene un cassetto pieno di monete, solo per liberarmi dalla custodia delle nostre padrone meccaniche. Mondo delle macchine, e così sia. Gli restituisco il denaro una volta al mese, con gli interessi. Siediti. Un bicchiere di sherry?»

«Uh… no, grazie, dottore.»

«Allora un caffè. Crema e zucchero sono in quel contenitore. Cosa mi dici dei tuoi genitori? Novità?»

«Be’, le solite cose, dottore. Stanno bene, lavorano sodo, e così via.» Nel parlare, Don si guardò intorno. La stanza era ampia, comoda, perfino lussuosa, benché pile e pile di libri, accumulati disordinatamente su scaffali, appoggiati sui mobili e sulle poltrone, e perfino sui tavoli e sulle sedie, nascondessero un poco l’eleganza del locale. In un angolo c’era un caminetto, nel quale scintillava e scoppiettava quello che pareva un fuoco vero, e non una simulazione meccanica. Attraverso una porta aperta, si poteva vedere una successione di altre stanze. Don cercò di fare un calcolo approssimativo del costo di un appartamento simile a Nuova Chicago. La somma, benché favolosa, doveva essere del tutto inadeguata.

Di fronte a loro c’era una finestra-veranda, che avrebbe dovuto mostrare le viscere della città; invece essa mostrava un torrente di montagna, circondato da una pineta. Mentre Don guardava, una trota scintillò argentea sulla superficie delle acque, e si immerse di nuovo.

«Che stiano lavorando sodo è fuori discussione,» rispose il suo ospite. «Lo fanno sempre. Tuo padre cerca di disseppellire, nello spazio breve di una vita umana, segreti che si sono accumulati per milioni di anni. Un compito impossibile… ma nei limiti umani, tuo padre ha ottenuto risultati grandiosi. Figliolo, ti rendi conto che quando tuo padre ha cominciato la sua carriera nessuno aveva ancora sognato che un tempo esisteva il primo impero solare? Che questa ipotesi non era stata avanzata neppure dagli scienziati e dagli archeologi più fantasiosi?» Aggiunse, pensieroso. «Se davvero quell’impero è stato il primo.» Poi proseguì, «Ora, noi siamo riusciti a scorgere le rovine sul fondo di due oceani… e le abbiamo collegate a quanto è emerso su altri quattro pianeti. Naturalmente non è stato tuo padre a compiere tutto questo, e neppure la maggiore parte del lavoro… ma il suo lavoro è stato indispensabile. Tuo padre è un grand’uomo, Donald… e anche tua madre è una donna eccezionale. Quando io parlo di uno parlo implicitamente anche dell’altra, e viceversa; tutte le grandi cose che hanno realizzato sono state il frutto di un lavoro comune. Prendi pure tutti i sandwich che vuoi.»

Don rispose:

«Grazie,» e si servì, riuscendo così a schivare una risposta diretta. Era profondamente lusingato, nel sentire elogiare così i suoi genitori, ma non gli pareva appropriato dichiararsi d’accordo, o fare commenti di sorta.

«Naturalmente, forse noi non riusciremo mai a conoscere tutte le risposte. Com’era il pianeta più grande, la culla della civiltà, il seggio della grandezza dell’Impero, la patria stessa di quegli antichi colonizzatori dei pianeti… quel mondo che ora non è altro che rottami interplanetari,ciottoli dispersi nello spazio siderale? Tuo padre ha trascorso quattro lunghi anni nella Cintura degli Asteroidi… c’eri anche tu allora, no?… e non è mai riuscito a trovare una risposta decisiva. Si trattava di un sistema binario, come il nostro sistema Terra-Luna, e l’equilibrio cosmico è stato spezzato dalle tensioni gravitazionali, da una specie di gigantesca marea? Oppure il pianeta è esploso, o è stato fatto esplodere?»

«Fatto esplodere?» protestò Don. «Ma questo è teoricamente impossibile… o no?»

Il dottor Jefferson, con un gesto spazientito, accantonò l’obiezione.

«Tutto è teoricamente impossibile, finché non viene fatto. Si potrebbe scrivere una storia della scienza alla rovescia, raccogliendo i solenni pronunciamenti delle più alte autorità intorno a ciò che non avrebbe mai potuto essere fatto, e a quello che non avrebbe mai potuto accadere. Hai studiato un po’ di filosofia matematica, Don? Conosci qualcosa della teoria della variabilità dell’universo infinito e dei sistemi postulati aperti?»

«Uh, temo di no, dottore.»

«Un’idea semplice, e molto tentatrice. L’idea che tutto è possibile… e intendo dire assolutamente tutto… e che tutto è è già accaduto. Tutto. Il nostro universo è tutti gli universi. L’universo nel quale tu hai accettato lo sherry, e ti sei ubriacato come una puzzola. Un altro in cui il quinto pianeta non è mai esploso. Un altro ancora, nel quale l’energia atomica e le armi nucleari sono impossibili come ritenevano i nostri antenati. Quest’ultimo universo potrebbe avere i suoi pregi, almeno per le mammolette come me.»

Si alzò in piedi.

«Non mangiare troppi sandwich. Ho intenzione di portarti in un ristorante dove potrai trovare anche del cibo, tra molte altre cose… e un cibo come quello che Zeus promise agli dei… senza mai riuscire a darlo.»

«Non voglio farle perdere troppo tempo, dottore.» Don sperava ancora di poter uscire da solo, in quella città tentacolare, quella sera. Di fronte ai suoi occhi si dipingeva la squallida prospettiva di una cena consumata in qualche noioso circolo per milionari, seguita da una serata di discorsi noiosi e muffi. E quella era la sua ultima notte sulla Terra.

«Tempo? E cos’è il tempo? Ogni ora che ci aspetta è nuova e fresca come quella che abbiamo appena consumato. Ti sei registrato all’ Hilton? »

«No, signore. Ho semplicemente depositato i bagagli alla stazione.»

«Bene. Stanotte resterai qui; manderemo a prendere i tuoi bagagli più tardi.» I modi del dottor Jefferson subirono un lieve mutamento. «Ma la posta doveva esserti inoltrata all’albergo?»

«È esatto.»

Don fu sorpreso, nel notare che il dottor Jefferson appariva chiaramente preoccupato.

«Be’, vedremo di sistemare anche questo più tardi. Quel pacco che ti ho spedito… ti verrà inoltrato subito?»

«Veramente, non lo so, dottore. In genere la posta arriva due volte al giorno. Se il pacco è arrivato dopo la mia partenza, in genere avrebbe aspettato fino al mattino. Ma se il direttore ci ha pensato, probabilmente può averlo inoltrato dalla città, servendosi dell’elicottero della sera, in modo che io possa riceverlo prima del decollo di domattina.»

«Vuoi dire che non c’è un tubo pneumatico nella scuola?»

«No, signore, è il cuoco a portare la posta del mattino, quando va in città a fare acquisti, e la posta del pomeriggio viene lanciata col paracadute dell’elibus di Roswell.»

«Un’isola deserta! Be’… faremo un controllo, verso mezzanotte. Se il pacco non sarà ancora arrivato… non importa.» Malgrado queste parole, il dottore parve turbato, e pronunciò pochissime parole durante il tragitto dall’appartamento al ristorante.

Il ristorante era eufemisticamente chiamato Il Retrobottega , e fuori non c’era alcuna insegna per indicarne l’ubicazione; si trattava semplicemente di una tra le tante porte di una galleria laterale. Malgrado ciò, molte persone parevano sapere dove si trovava, e parevano altrettanto ansiose di entrarvi, ma i loro tentativi d’ingresso erano frustrati da un dignitario dal viso arcigno che difendeva un cordone di velluto. Questo ambasciatore riconobbe il dottor Jefferson, e mandò a chiamare il maître d’hotel. Il dottore fece un gesto che tutti i camerieri sapevano comprendere, dall’inizio della storia, il cordone fu calato, ed essi vennero condotti in una processione regale fino a un tavolo di prima fila. Don rimase a bocca aperta, alla vista delle dimensioni della mancia. Così si trovò prontissimo, con la più adatta espressione facciale, per la seconda, e più sensazionale sorpresa: la vista della cameriera che veniva a servirli.

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