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Robert Heinlein: Guerra nell'infinito

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Robert Heinlein Guerra nell'infinito

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Don Harvey è nato nello spazio, a bordo di un’astronave in caduta libera oltre l’orbita degli asteroidi, da padre terrestre e da madre di cittadinanza venusiana, si ritrova senza patria quando le colonie di Venere decidono di ribellarsi allo sfruttamento della Federazione Terrestre. È la storia della prima guerra cosmica, sullo sfondo di una grande trasformazione del sistema solare, in orbita intorno alla luna si sta costruendo il Cercatore di Orizzonti. La nave interstellare che porterà uomini e donne in un viaggio di centinaia d’anni, generazioni e generazioni su un mondo artificiale, verso altri sistemi stellari; su Marte e su Venere, gli indigeni intelligenti che i terrestri hanno trovato al loro arrivo sui pianeti gemelli ricordano epoche remotissime, nelle quali la Terra, Marte, Venere e i satelliti di Giove facevano parte di un grandioso Impero… Don Harvey, strappato al suoi studi, alla vita che conosceva, dallo scoppio della guerra, sfugge miracolosamente alla distruzione di Circum-Terra, la stazione spaziale che collega la Terra a Luna City e ai pianeti, e finisce su Venere, tra le paludi e le giungle del pianeta nebbioso, braccato da tutti i belligeranti perche, suo malgrado, egli è latore di un messaggio così importante che, da solo, potrebbe cambiare la storia del Sistema Solare.

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«Sono cittadino del Sistema Solare.» disse, con voce un po’ incerta.

«Già, già,» rispose il direttore, pensieroso. «Questa è una frase bellissima, e può darsi che un giorno possa significare qualcosa. Nel frattempo, parlando da amico, ti posso dire che sono d’accordo con i tuoi genitori. È molto probabile che Marte rimanga un territorio neutrale; e tu sarai al sicuro, lassù. E, sempre parlando da amico… qui sulla Terra le cose potrebbero farsi piuttosto spiacevoli, per chiunque non abbia una posizione sufficientemente chiara nel conflitto.»

«Nessuno ha il diritto di mettere in dubbio la mia fedeltà! Secondo la legge, è come se io fossi nato sulla Terra; sono un cittadino come tutti gli altri.»

Il direttore non rispose. A questo punto, Don esplose:

«Si tratta di una faccenda stupida, fin dall’inizio! Se la Federazione non avesse cercato di dissanguare fino all’ultima goccia Venere, nessuno avrebbe mai parlato di guerra.»

Reeves s’irrigidì, e si alzò in piedi.

«Questo è tutto, Don. Non intendo mettermi a discutere di politica con te.»

«Ma è vero. Legga la Teoria dell’Espansione Coloniale di Chamberlain.»

Reeves trasalì visibilmente.

«Un momento.» Tornò a sedere, e fissò Don negli occhi. «Dove hai potuto mettere le mani su quel libro? Certamente non nella biblioteca della scuola.»

Don non rispose. Si morse la lingua, e capì di essersi lasciato trasportare troppo dall’emozione. Era stato suo padre a spedirgli il libro, ma lo aveva avvertito di tenerlo nascosto, e di non farlo vedere in giro, né di farsi sorprendere a leggerlo; si trattava di uno dei libri proibiti… sulla Terra, per lo meno. Reeves continuò:

«Don, hai avuto a che fare con qualche clandestino

Don non rispose.

«Donald, rispondi!»

Dopo qualche tempo, Reeves fece un profondo sospiro, e disse:

«Non importa. Sali in camera tua, e prepara i bagagli. L’elicottero ti porterà ad Albuquerque all’una in punto.»

«Sì, signore.» Si era voltato, ed era già sulla porta, quando il direttore lo richiamò.

«Solo un momento. Nel calore della nostra, uh, discussione, quasi dimenticavo di avere ricevuto un altro messaggio per te.»

«Eh?» Don prese il foglio; c’era scritto: CARISSIMO DON, NON DIMENTICARE DI SALUTARE LO ZIO DUDLEY PRIMA DI PARTIRE — MAMMA.

Questo secondo messaggio lo sorprese, sotto molti aspetti, assai più del primo; faticò a capire che sua madre aveva certamente inteso parlare del dottor Dudley Jefferson… un amico dei suoi genitori, ma certamente non un parente, e, con ancora maggiore certezza, una persona che non aveva avuto la minima importanza nella vita di Don. Ma apparentemente il signor Reeves non aveva visto nulla di strano nel messaggio, così Don lo infilò nella sua Levis e uscì dalla stanza.

Dato che era rimasto legato alla Terra per tanti anni, Don avrebbe potuto dimenticare lo spirito autentico dello spaziale; non era così. Si mise al lavoro nella sua camera, iniziando i preparativi con la mentalità di chi conosce le realtà e i problemi dello spazio siderale. Sapeva che il suo passaggio gli avrebbe dato diritto solo a cinquanta libbre di carico gratuito; così, cominciò una rigorosa selezione dei suoi effetti personali. In breve, ebbe due mucchi… uno minuscolo, sul letto… gli abiti indispensabili, alcune capsule di microfilm, il regolo, e un vreetha , uno strumento musicale marziano assai simile a un flauto, che non suonava da molto tempo, per le violente obiezioni dei compagni di scuola. Sul letto del suo compagno di camera c’era un mucchio assai più consistente di oggetti scartati.

Prese il vreetha , tentò un paio di accordi, e poi lo mise sul mucchio più grande. Portare un prodotto marziano su Marte era come portare sabbia nel Sahara, o carbone a Newcastle. Il suo compagno di camera, Jack Moreau, entrò proprio nel momento in cui l’ultimo oggetto veniva lanciato sul mucchio.

«Cosa diavolo succede?» domandò. «Stai facendo le pulizie?»

«Sto partendo.»

Jack s’infilò un dito nell’orecchio.

«Devo essere diventato sordo. Avrei giurato che tu stavi dicendo di stare partendo.»

«Hai sentito bene.» Don interruppe il suo lavoro e diede le opportune spiegazioni, mostrando a Jack il messaggio dei genitori.

Jack parve addolorato.

«Questo non mi va giù. Naturalmente sapevo benissimo che questo era il nostro ultimo anno… e che dopo il diploma saremmo partiti tutti. Ma non immaginavo che tu abbandonassi prima. Probabilmente, non riuscirò a dormire, senza sentirti russare. Perché tanta fretta?»

«Non lo so. Davvero non lo so. Il direttore dice che i miei vecchi sono stati punti dalla tarantola della guerra, e che non riusciranno a dormire fino a quando il loro prezioso figliolo non sarà al sicuro, lontano dalla zona del pericolo. Ma questo è stupido, non trovi? Voglio dire che oggi la gente è troppo civile, per pensare seriamente alla guerra.»

Jack non rispose. Don aspettò, poi disse, in tono urgente:

«Sei d’accordo, no? Non ci sarà nessuna guerra.»

Jack rispose, lentamente:

«Può darsi di sì. E può darsi di no.»

«Oh, non dire sciocchezze!»

Il suo compagno di camera rispose:

«Vuoi che ti aiuti a fare i bagagli?»

«Non ci sono bagagli da fare.»

«E tutta questa roba?»

«È tua, se la vuoi. Prendi quel che ti pare, poi chiama gli altri, e lascia che prendano quello che vogliono dei resti.»

«Eh? Accidenti, Don, non voglio prenderti quello che hai. Ci penserò io a farne un pacco, e a spedirlo con la prossima astronave.»

«Hai mai spedito qualcosa sui pianeti? Non ne vale la pena.»

«Allora vendila. Sai cosa ti dico? Dopo cena, faremo un’asta.»

Don scosse il capo.

«Non c’è tempo. Devo partire all’una.»

«Cosa? Davvero, non mi piace il modo in cui precipiti le cose, amico. Non lasci il tempo di riflettere.»

«Non l’hanno lasciato neanche a me; quindi, non posso farci nulla.» Don ricominciò il suo lavoro.

Quasi tutti i suoi amici vennero a salutarlo. Don non aveva diffuso la notizia, e non supponeva che il direttore avesse parlato, eppure, in quella misteriosa rete di comunicazioni che sfugge a qualsiasi definizione razionale, e che scuole, eserciti, collegi e conventi conoscono così bene, la voce era stata raccolta e diffusa. Invitò gli amici a servirsi dal mucchio, lasciando comunque la priorità della scelta a Jack.

Dopo qualche tempo, Don notò che nessuno di loro chiedeva il motivo della sua partenza. Questo lo turbò, molto più profondamente che se ne avessero parlato. Avrebbe voluto dire a qualcuno, chiunque fosse, che era ridicolo dubitare della sua lealtà… e che in ogni modo non ci sarebbe stata nessuna guerra, che era inconcepibile, assurdo!

Rupe Salter, uno studente di un’altra ala, si affacciò alla porta, e osservò con aria indolente i preparativi.

«Stai tagliando la corda, eh? L’ho sentito dire, e ho pensato di venire a controllare.»

«Sto partendo, se è questo che vuoi dire.»

«È quello che ho detto. Stammi a sentire, ‘Don Jaime’, che te ne fai di quella sella da circo? Sono pronto a toglierti il pensiero, se il prezzo è onesto.»

«Non è in vendita.»

«Uh? Non ci sono cavalli, dove vai tu. Dimmi il prezzo.»

«Appartiene a Jack.»

«E non è in vendita,» aggiunse subito Moreau.

«Così, eh? Fate i vostri comodi.» Salter proseguì, con il solito tono indolente. «Un’altra cosa… hai già lasciato in eredità quella tua specie di cavallo?»

I cavalli degli studenti, con rarissime eccezioni, erano di proprietà della scuola, ma esisteva una tradizione solida e di antica data, secondo la quale un diplomato aveva il privilegio di assegnare in ‘eredità’ la bestia che aveva avuto in proprietà temporanea, nel corso degli anni di studio, a uno studente da lui scelto. Si trattava di una tradizione accettata da tutti, allievi e direzione della scuola; e nel sentire quelle parole, Don capì che fino a quel momento non aveva pensato a Sonno. Si rese conto, provando un autentico dolore, di non poter portare con sé il grasso pony pigro… né di avere preso alcuna decisione per il futuro dell’animale, e per garantire che fosse trattato bene, e avesse un buon padrone.

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