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Robert Heinlein: Guerra nell'infinito

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Robert Heinlein Guerra nell'infinito

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Don Harvey è nato nello spazio, a bordo di un’astronave in caduta libera oltre l’orbita degli asteroidi, da padre terrestre e da madre di cittadinanza venusiana, si ritrova senza patria quando le colonie di Venere decidono di ribellarsi allo sfruttamento della Federazione Terrestre. È la storia della prima guerra cosmica, sullo sfondo di una grande trasformazione del sistema solare, in orbita intorno alla luna si sta costruendo il Cercatore di Orizzonti. La nave interstellare che porterà uomini e donne in un viaggio di centinaia d’anni, generazioni e generazioni su un mondo artificiale, verso altri sistemi stellari; su Marte e su Venere, gli indigeni intelligenti che i terrestri hanno trovato al loro arrivo sui pianeti gemelli ricordano epoche remotissime, nelle quali la Terra, Marte, Venere e i satelliti di Giove facevano parte di un grandioso Impero… Don Harvey, strappato al suoi studi, alla vita che conosceva, dallo scoppio della guerra, sfugge miracolosamente alla distruzione di Circum-Terra, la stazione spaziale che collega la Terra a Luna City e ai pianeti, e finisce su Venere, tra le paludi e le giungle del pianeta nebbioso, braccato da tutti i belligeranti perche, suo malgrado, egli è latore di un messaggio così importante che, da solo, potrebbe cambiare la storia del Sistema Solare.

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Robert A. Heinlein

Guerra nell’infinito

CAPITOLO I

UN MESSAGGIO DA MARTE

«Buono, amico, buono!»

Don Harvey tirò le redini, per fermare il piccolo pony grasso; il cavallo, che generalmente faceva del suo meglio per meritare il nome che gli era stato impartito — e cioè Sonno — quel giorno pareva intenzionato a conoscere nuovi orizzonti. Non che Don lo biasimasse per questo. Era una di quelle giornate che si vedono soltanto nel Nuovo Messico, con il cielo limpido, pulito, azzurro, incredibilmente lavato da un rapido temporale, e con la terra già asciutta, ma con una pennellata d’arcobaleno ancora spruzzata all’orizzonte. Il cielo era troppo azzurro, le colline isolate, a strapiombo, erano troppo rosee, e il paesaggio all’orizzonte era troppo nitido, troppo chiaro, per apparire davvero convincente. Una pace incredibile era sospesa sul paesaggio, e quella pace era come un respiro trattenuto, un’attesa ansiosa che accadesse qualcosa di meraviglioso.

«Abbiamo un’intera giornata a disposizione,» avvertì sottovoce Sonno, «E non è il caso di correre tanto. Abbiamo una scalata piuttosto ripida, davanti a noi.» Don cavalcava da solo, perché aveva adornato Sonno con una splendida sella messicana che i suoi genitori gli avevano fatto recapitare per il suo compleanno. Era bellissima, scintillante d’argento, chiassosa, ma era fuori di posto nella scuola-fattoria che lui frequentava, come un abito da sera indossato per mungere le vacche… cosa, questa, che i suoi genitori non avevano capito. Don ne era orgoglioso, ma gli altri ragazzi avevano delle selle funzionali, spoglie; e così lo prendevano impietosamente in giro, e avevano trasformato «Donald James Harvey» in «Don Jaime», nel momento stesso in cui l’avevano visto apparire con essa.

Improvvisamente, Sonno s’impennò. Don si guardò intorno, scoprì il motivo di questo comportamento, estrasse la pistola, e fece fuoco. Poi scese di sella, lasciando pendere le redini, in modo che Sonno rimanesse dov’era, e andò a esaminare il suo lavoro. Nell’ombra di una roccia, un serpente di dimensioni ragguardevoli, con sette sonagli sulla coda, si stava ancora torcendo. La testa giaceva a poca distanza, recisa di netto dal colpo. Don decise di non conservare la coda; se avesse centrato perfettamente la testa, l’avrebbe portata con sé come prova della sua perizia. Invece, era stato costretto a tagliarla lateralmente, con il raggio della pistola, prima di colpirla. Se avesse portato con sé il cadavere di un serpente ucciso in una maniera così goffa, qualcuno gli avrebbe certamente chiesto perché non aveva usato una pompa da giardino.

Lasciò il serpente dov’era, e risalì in sella, dicendo a Sonno:

«Era solo un vecchio rettile buono a nulla,» fece, in tono rassicurante. «Ha avuto più paura lui di te.»

Ridacchiò, e fece ripartire il pony. Dopo poche centinaia di metri, Sonno s’impennò di nuovo, questa volta non per un serpente, ma per un suono inaspettato. Don tirò le redini, e disse, in tono severo:

«Grassone stupido che non sei altro! Quando imparerai a non saltare, quando suona il telefono?»

Sonno fece guizzare i muscoli delle spalle, in segno di sovrano disprezzo, e sbuffò rumorosamente. Don allungò la mano verso il pomo della sella, staccò il microfono, e rispose:

«Mobile 6-J-233309. Parla Don Harvey.»

«Don, sono il signor Reeves,» rispose la voce del direttore di Ranchito Alegre. «Dove ti trovi?»

«Sto scalando la mesa di Fossa del Viaggiatore, signor Reeves.»

«Torna indietro più presto che puoi.»

«Uh… che succede, signore?»

«Un radiogramma dei tuoi genitori. Manderò l’elicottero a prenderti, se il cuoco è già tornato… insieme a qualcuno che possa prendere il tuo cavallo.»

Don esitò. Non voleva che il primo venuto cavalcasse Sonno, senza saperlo trattare nella maniera giusta. D’altro canto, un messaggio dei suoi genitori non poteva non essere importante. I genitori di Don erano su Marte, e sua madre gli scriveva regolarmente, una lettera per ogni astronave… ma i radiogrammi all’infuori degli auguri di Natale e del compleanno, erano una cosa priva di precedenti.

«Corro subito, signor Reeves.»

«Bene.» Il signor Reeves tolse la comunicazione. Don fece girare Sonno, e cominciò a ripercorrere il sentiero dal quale erano venuti. Sonno parve deluso, e piegò il muso, voltandosi più volte a guardarlo con aria accusatrice.

L’elicottero li avvistò quando si trovavano a meno di mezzo miglio dalla scuola. Don indicò a grandi gesti al pilota di allontanarsi, e proseguì per la sua strada, in sella a Sonno. Malgrado la curiosità, indugiò nel recinto, per dissellare il pony e dargli da bere; poi entrò nell’edificio. Il signor Reeves lo stava aspettando nel suo ufficio, e non appena Don fece capolino, gli fece segno di entrare. Porse subito il messaggio al ragazzo.

C’era scritto: CARISSIMO DON, PASSAGGIO RISERVATO A TUO NOME SU VALCHIRIA CIRCUM-TERRA DODICI APRILE BACI — MAMMA E PAPÀ.

Don batté le palpebre, e rilesse il messaggio, faticando ad assimilare quelle semplici parole:

«Ma questo significa partire subito!» esclamò.

«Sì. Non te lo aspettavi?»

Don rifletté sulla domanda. Certo, si era aspettato di tornare a casa, più o meno confusamente… se poteva definire ‘tornare a casa’ la faccenda, quando in realtà lui non aveva mai messo piede su Marte… alla fine dell’anno scolastico. Se i suoi genitori avevano prenotato il passaggio a bordo della Vanderdecken , fra tre mesi…

«Be’, non esattamente. Non riesco a capire per quale motivo mi abbiano mandato a chiamare, prima della fine dell’anno scolastico.»

Il signor Reeves riunì le punte delle dita, con metodica calma.

«Personalmente, direi che il motivo è evidente.»

Don sobbalzò, sorpreso.

«Cosa intende dire? Non sarà… signor Reeves, lei non penserà davvero che ci saranno delle complicazioni, no?»

Il direttore rispose in tono grave:

«Don, io non sono un profeta. Ma immagino che i tuoi genitori siano sufficientemente preoccupati, per volerti allontanare da una potenziale zona di guerra al più presto possibile.»

Don faticava ancora a orientarsi. Le guerre, dopotutto, erano cose che si studiavano sui libri di storia, non cose che potessero accadere davvero. Naturalmente, durante il corso di storia contemporanea, si erano tenuti al corrente dell’attuale crisi negli affari coloniali, ma, ciononostante, la cosa era sembrata ugualmente remota, anche per una persona che aveva viaggiato ampiamente come lui… una faccenda che riguardava soltanto, i diplomatici e gli uomini politici, non una cosa reale.

«Mi ascolti, signor Reeves, loro potranno essere nervosi, ma io no. Vorrei mandare un messaggio radio, per avvertirli che partirò con la prossima astronave, subito dopo la fine della scuola.»

Il signor Reeves scosse il capo.

«No. Non posso permetterti di disobbedire alle istruzioni esplicite ricevute dai tuoi genitori. In secondo luogo, be’…» Apparentemente, il direttore aveva qualche difficoltà nello scegliere le parole, «…puramente in linea teorica, voglio dire, Donald, che in caso di guerra potresti trovare la tua posizione qui, come possiamo definirla?, be’, imbarazzante.»

Un vento freddo, apparentemente, era riuscito a trovare qualche fessura per entrare nell’ufficio del direttore. Don si sentì più solo e più adulto di quanto avrebbe dovuto sentirsi.

«Perché?» domandò, rigidamente.

Il signor Reeves si studiò accuratamente le unghie.

«Sei perfettamente certo di conoscere a chi tu debba obbedienza?

Don si sforzò di riflettere su questa domanda. Suo padre era nato sulla Terra; sua madre era una colona venusiana della seconda generazione. Ma né la Terra, né Venere, erano, in realtà, la loro patria; si erano conosciuti, e sposati, sulla Luna, e avevano compiuto le loro ricerche di planetologia in numerose regioni del sistema solare. Lo stesso Don era nato nello spazio siderale e il suo certificato di nascita, rilasciato dalla Federazione, aveva lasciato aperto il problema della sua nazionalità. Lui avrebbe potuto chiedere una doppia cittadinanza, per discendenza paterna e materna; questo gli sarebbe stato possibile. Lui non si considerava un colono di Venere; era passato tanto tempo, dall’ultima volta in cui la sua famiglia aveva visitato Venere, che quel mondo era distorto, aveva acquistato, nella sua mente, contorni vaghi e irreali. D’altra parte, lui aveva posato lo sguardo sulle dolci, verdi colline della Terra per la prima volta solo quando aveva compiuto undici anni.

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