Don fu sul punto di rispondere per le rime, perché ancora non gli era chiaro che quella non era la scuola, e non si trattava di una delle solite bravate tra studenti. Il dottor Jefferson s’intromise frettolosamente nella conversazione:
«Fa’ come ti chiedono, Donald!»
Don chiuse la bocca, e seguì uno dei due subalterni nel corridoio. L’uomo lo condusse nella camera da letto, e chiuse la porta.
«Siediti,» gli disse, in tono gentile. Don non si mosse. Il suo guardiano si avvicinò, gli appoggiò la mano sul petto, e spinse. Fu una spinta forte. Don si mise a sedere.
L’uomo sfiorò un pulsante, sul pannello di comando del letto, facendo sollevare il letto in posizione di lettura, poi si distese tranquillamente su di esso. Parve scivolare nel sonno, ma ogni volta che Don guardava da quella parte, gli occhi dell’uomo sostenevano il suo sguardo, vigili e freddi. Don tese le orecchie, cercando di sentire quello che stava accadendo nel soggiorno, ma avrebbe potuto risparmiarsi la fatica; la camera, essendo una camera da letto, era completamente antiacustica.
Così Don restò seduto dov’era, indeciso e nervoso, cercando di ricavare una linea sensata dalle cose incredibili che gli erano accadute. Era tutto assurdo, inverosimile. Ricordò, quasi con incredulità, che non erano passati lunghi secoli dal giorno in cui lui e Sonno avevano iniziato la scalata della Fossa del Viaggiatore; sobbalzò, si rese conto che quell’evento aveva avuto luogo soltanto al mattino dello stesso giorno. Si domandò che cosa stesse facendo Sonno in quel momento, e se quel furfantello avido sentisse la sua mancanza.
Probabilmente no, ammise tra sé, malinconicamente.
Lanciò un’occhiata di sbieco al guardiano, domandandosi se, rannicchiandosi bene, portando i piedi sotto il corpo, cercando di fare leva con essi, gli fosse stato possibile…
Il guardiano scosse il capo.
«Non farlo,» ammonì.
«Non devo fare cosa?»
«Non tentare di saltarmi addosso. Potresti costringermi ad agire, e allora potresti farti male… seriamente.» L’uomo, apparentemente, ritornò a dormire.
Don scivolò in uno stato di apatia. Anche se fosse riuscito a sorprendere quel poliziotto, se avesse potuto perfino eliminarlo, metterlo a dormire per qualche tempo, o legarlo… ce n’erano altri tre, là fuori, tra lui e la porta. E se anche fosse riuscito a sfuggire a quei tre? Una città straniera, gigantesca, complessa oltre ogni misura, nella quale loro avevano organizzato tutto, tenevano tutto sotto controllo… dove avrebbe potuto fuggire?
Un giorno, alla fattoria, aveva visto il gatto della stalla che giocava con un topolino. Aveva osservato lo spettacolo per un momento, affascinato, anche se le sue simpatie erano andate tutte al topolino; aveva indugiato provando una dose incontrollabile di ammirazione per il felino, prima di farsi avanti e di liberare la povera bestiola dalla sua infelice posizione. Il gatto non aveva permesso al topo di allontanarsi neppure una volta oltre la portata delle sue zampe vellutate, e aveva proseguito quel gioco, sornione, socchiudendo soddisfatto gli occhi come solo i gatti felici sanno fare. E adesso lui, Donald Harvey, era il topo…
«Su, in piedi!»
Don balzò in piedi, sobbalzando, e faticando a identificare l’ambiente nel quale si trovava, e la situazione.
«Vorrei avere la tua coscienza tranquilla,» disse il guardiano, in tono ammirato. «È veramente un dono di natura essere capaci di dormire in qualsiasi situazione. Vieni; il capo ti vuole.»
Don precedette il suo custode nel soggiorno; là non c’era nessuno, a eccezione del compagno dell’uomo che lo aveva custodito. Don si voltò, e disse:
«Dov’è il dottor Jefferson?»
«Non importa,» replicò il guardiano. «Il tenente detesta aspettare.» Si avviò alla porta.
Don restò dov’era. Il secondo guardiano, con aria molto casuale, lo prese per un braccio; Don sentì un dolore lancinante all’altezza della spalla, e si affrettò ad assecondare i desideri dei poliziotti.
Fuori, nella galleria, c’era un’automobile a guida manuale, assai più grande dai tassi automatici. Il secondo poliziotto s’infilò al posto di guida; l’altro spinse Don nel compartimento passeggeri. Don sedette, e fece per voltarsi… e scoprì di non poterlo fare. Era incapace perfino di alzare le mani. Ogni tentativo di muoversi, di fare qualcosa, qualsiasi cosa che non fosse sedere e respirare, era frustrato da un peso che pareva quello di decine e decine di pesanti coperte.
«Non farti cattivo sangue,» consigliò il poliziotto. «Potresti farti male, cercando di combattere questo campo. E non ti servirebbe a niente.»
Don volle controllare la veridicità delle affermazioni dell’altro. Qualunque fosse la natura di quello strano legame, più egli faceva forza per spezzarlo, più strettamente si sentiva legato. D’altra parte, quando si rilassava e si metteva quieto, non ne avvertiva neppure la presenza.
«Dove mi state portando?» domandò.
«Non lo sai? Alla direzione cittadina dell’I.B.I., naturalmente.»
«Perché? Io non ho fatto niente!»
«In questo caso, non dovrai restarci per molto.»
L’automobile si fermò all’interno di un grande salone nel quale erano parcheggiati molti veicoli; i tre scesero e camminarono fino a una porta, di fronte alla quale si fermarono; Don ebbe la netta sensazione di essere esaminato. Dopo un breve intervallo, la porta si aprì; ed essi entrarono.
Il luogo sprigionava un inconfondibile odore di burocrazia. Percorsero un lunghissimo corridoio, nel quale si aprivano lunghe, interminabili teorie di uffici pieni d’impiegati, di scrivanie, di transdittafoni, e di elaboratori di schede che ronzavano vigorosamente. Un ascensore li portò a un altro livello; uscirono, percorrendo un altro dedalo di corridoi asettici, lucidi e impersonali, e si fermarono davanti alla porta di un ufficio.
«Dentro,» disse il primo poliziotto. Don entrò; la porta scorrevole si chiuse alle sue spalle, lasciando fuori i due guardiani.
«Siediti, Don.» Era il capo del gruppo dei quattro uomini, ora nell’uniforme di ufficiale della sicurezza, seduto dietro una scrivania a ferro di cavallo.
Don disse:
«Dov’è il dottor Jefferson? Cosa gli avete fatto?»
«Siediti, ho detto.» Don non si mosse; il tenente proseguì, «Perché vuoi procurarti dei guai? Sai dove ti trovi; sai che potrei costringerti a fare quel che desidero, in qualsiasi maniera mi possa convenire… e alcune di queste maniere sono sufficientemente spiacevoli. Vorresti metterti a sedere, per favore, risparmiando fastidi a entrambi?»
Don si mise a sedere, e immediatamente disse:
«Voglio vedere un avvocato.»
Il tenente scosse il capo con estrema lentezza, e il suo aspetto era quello di un professore stanco e gentile.
«Ragazzo mio, tu hai letto troppi romanzi romantici. Ora, se avessi invece studiato la dinamica della storia, ti renderesti conto che la logica del legalitarismo si alterna con la logica della forza, in un disegno che dipende dalle caratteristiche della civiltà. Ogni civiltà evoca la propria logica fondamentale. Mi segui?»
Don esitò: e l’altro proseguì:
«Non importa. Il fatto è che la tua richiesta di un avvocato giunge con circa duecento anni di ritardo per avere qualche significato. I verbalismi rimangono distanziati dai fatti. Malgrado ciò, tu avrai un avvocato… o un lecca-lecca, quello tra i due che preferisci… non appena avrò terminato d’interrogarti. Se fossi in te, sceglierei il lecca-lecca. È più nutriente.»
«Non dirò una sola parola, senza un avvocato,» rispose Don, con fermezza.
«No? Come mi dispiace. Don, nel preparare il programma del nostro colloquio, ho riservato undici minuti per le idiozie. Ormai ne hai già consumati quattro… no; cinque. Quando gli undici minuti saranno passati, e tu comincerai a sputare i denti, uno per uno, ricordati che non lo farò con malizia; non ho alcun motivo di astio nei tuoi confronti. Ora, a proposito della faccenda che hai detto prima… il fatto che tu possa o non possa parlare; ci sono diversi metodi per fare parlare un uomo, e ciascun metodo ha i suoi appassionati, che sono pronti a giurare sulla sua validità. Le droghe, per esempio… ossido di nitro, scopolamina, pentothal di sodio, per non menzionare alcune delle più recenti, più sottili, e relativamente atossiche, che sono state realizzate. Perfino gli etilici sono stati usati, con grande successo, da funzionali del servizio segreto. Io non amo le droghe, colpiscono direttamente l’intelletto, e ingombrano un interrogatorio di una quantità di dati che non m’interessano, né mi sono utili. Ti sorprenderebbe sapere quanto pattume si può accumulare nel cervello di un uomo, Don, se tu fossi costretto ad ascoltarlo… come vi sono costretto io.
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