«E poi c’è l’ipnosi, con le sue molte varianti. C’è anche la stimolazione artificiale di un bisogno insopprimibile, come nel caso di un’assuefazione alla morfina. Finalmente, c’è la forza più antiquata… il dolore. Be’, io conosco un artista… credo che in questo momento si trovi nell’edificio… che può interrogare con successo anche il caso più recalcitrante, nel tempo minimo e servendosi solo delle mani nude. Poi, naturalmente, in questa categoria, c’è l’antichissima variazione, nella quale la forza, o il dolore, non vengono applicati alla persona interrogata ma a una seconda persona che la prima non può vedere soffrire, come una moglie, un figlio, o una figlia. Fra parentesi, questo metodo parrebbe difficile da usare su di te, poiché i tuoi unici parenti non si trovano su questo pianeta.» L’ufficiale della sicurezza lanciò un’occhiata all’orologio, e aggiunse, «Solo trenta secondi d’idiozie ancora a disposizione, Don. Vogliamo cominciare?»
«Uh? Aspetti un momento! È stato lei a consumare tutto il tempo; io non ho detto neanche una parola.»
«Non ho tempo per essere equo. Spiacente. Comunque,» proseguì, «L’apparente obiezione all’ultimo metodo non si applica nel tuo caso. Durante il breve periodo nel quale sei rimasto incosciente, nell’appartamento del dottor Jefferson, siamo riusciti a determinare l’esistenza di una… persona… che si adatta alle nostre esigenze. Tu parlerai subito, per non vedere soffrire questa… persona.»
«Uh?»
«Un cavallino chiamato ‘Sonno’.»
L’insinuazione lo prese alla sprovvista; Don non aveva capito, fino a quel momento, quale fosse l’obiettivo dell’accurata costruzione verbale del poliziotto. Il giovane rimase paralizzato, stordito. L’uomo si affrettò a proseguire:
«Se proprio insisti, possiamo aggiornare il nostro incontro per due o tre ore, e così farò portare qui il tuo cavallo con un trasporto speciale. Potrebbe trattarsi di un esperimento interessante, poiché non credo che il metodo sia mai stato usato prima d’oggi con un cavallo. È noto che il loro udito è piuttosto sensibile. D’altra parte, mi sento costretto a dirti che, se ci prenderemo il disturbo di farlo venire qui a bordo di un razzo, certamente non ci sobbarcheremo la spesa e la fatica di rimandarlo alla sua fattoria, ma lo manderemo direttamente nei mattatoi, dove verrà ucciso. I cavalli sono un anacronismo notevole a Nuova Chicago, non trovi?»
La testa di Don stava girando troppo vorticosamente per riuscire a formare qualche pensiero preciso, o perfino per seguire tutte le orribili implicazioni di quel discorso, o comunque per dare una risposta. Finalmente, riuscì a esclamare, raucamente:
«Non può fare questo! Non è possibile!»
«Il tempo è scaduto, Don.» Il poliziotto lo fissò con aria gentile, somigliando sempre di più a un tranquillo professore di scuola. «Come vedi, ci sono numerose risposte alla tua prima domanda. La psicologia umana è bizzarra; esiste sempre un oggetto affettivo, o una compensazione di un soggetto affettivo. Ciascuno di noi deve sentirsi legato a qualcuno, o a qualcosa… si tratti di una persona, di un luogo, di una casa, o di un animale. Saresti sorpreso nello scoprire quali strane direzioni può assumere questo desiderio di legarsi emotivamente, soprattutto nei giovani. Be’, non c’è altro da dire, mi sembra.»
Don fece un profondo sospiro, e si arrese.
«Continui,» disse, cupamente. «Faccia pure le sue domande.»
Il tenente prese dalla scrivania una bobina microfilmata, la inserì in un proiettore, il cui schermo si trovava di fronte al poliziotto, invisibile a Don.
«Dimmi il tuo nome, per favore.»
«Donald James Harvey.»
«E il tuo nome venusiano?»
Don emise una breve serie di sibili.
«Nebbia sulle Acque.»
«Dove sei nato?»
«A bordo della Verso l’Infinito , in traiettoria tra la Luna e Ganimede.» Le domande proseguirono, una fiumana apparentemente inarrestabile. L’inquisitore apparentemente possedeva già tutte le risposte, proiettate sullo schermo di fronte a lui; un paio di volte, fece approfondire o correggere a Don qualche punto trascurabile. Dopo avere passato in rassegna l’intera vita passata del ragazzo, egli chiese a Don di fornirgli un resoconto particolareggiato degli eventi che erano iniziati nel momento in cui aveva ricevuto il messaggio dei suoi genitori, con l’ordine di salire a bordo della Valchiria , con direzione Marte.
L’unica cosa che Don tralasciò fu quanto il dottor Jefferson aveva detto a proposito del pacco. Aspettò nervosamente, pensando di ricevere da un momento all’altra qualche secca domanda sull’argomento. Ma se l’ufficiale della sicurezza era al corrente dell’esistenza del pacco, egli non tradì in alcun modo questa sua conoscenza.
«Il dottor Jefferson pareva convinto che quel cosiddetto agente della sicurezza lo stesse seguendo? O stesse seguendo te?»
«Non lo so. Non credo che il dottore lo sapesse.»
«’Il perverso fugge quando nessuno lo insegue’,» citò il tenente. «Dimmi esattamente cosa hai fatto, dopo avere lasciato il Retrobottega. »
«Quell’uomo mi stava davvero seguendo?» domandò Don. «Ma santo cielo, io non avevo mai visto quel drago prima di quel momento; io stavo solo passando il tempo, visto che dovevo attendere, cercando di essere cortese.»
«Sono certo che queste fossero le tue intenzioni. Ma sono io a fare le domande. Procedi.»
«Be’, abbiamo cambiato due volte tassi… o forse tre volte. Non so dove siamo andati; non conosco la città, e a un certo punto sono rimasto completamente confuso; non avrei saputo distinguere una galleria dall’altra. Ma alla fine siamo ritornati nella galleria dove si trova l’appartamento del dottor Jefferson.» Omise di menzionare la chiamata fatta all’ Hilton; anche questa volta, se l’inquisitore era al corrente dell’omissione, non ne diede alcun segno.
Il tenente disse:
«Be’, questo apparentemente ci porta al momento attuale.» Spense il proiettore, e si appoggiò allo schienale della sedia, guardando nel nulla per qualche minuto. «Figliolo, non c’è alcun dubbio, nella mia mente, se non per il fatto che tu sia potenzialmente sleale.»
«Perché dice questo?»
«Lascia perdere le formule di cortesia. Non c’è nulla, nella tua educazione e nell’ambiente nel quale sei nato e vissuto, che ti possa rendere fondamentalmente leale alla Terra. Ma non c’è da preoccuparsi troppo di questo; una persona nella mia posizione deve essere pratica. Tu intendi partire per Marte, domattina?»
«Ci può scommettere!»
«Bene. Non vedo come tu possa essere rimasto coinvolto in troppi intrighi, alla tua età, soprattutto essendo isolato in quella scuola-fattoria. Quel tipo di istruzione prepara per la vita sugli altri pianeti, in una civiltà in espansione… ma tende anche a isolare la personalità, rallentandone un poco l’evoluzione in altri campi. Dipende dal tipo di società; la nostra è una società in parte pionieristica, e per avere dei buoni pionieri, i giovani devono conoscere molte cose che non lasciano tempo per altre cose. Perciò, questo ti esclude da qualche intrigo più complesso. Ma non appena sei arrivato in città, sei capitato in cattiva compagnia. Non perdere quell’astronave; se domattina sarai ancora qui, sarò costretto a rivedere le mie opinioni.»
Il tenente si alzò, imitato da Don.
«Certo che prenderò quell’astronave!» ammise Don, di cuore, e poi si interruppe. «A meno che…»
«A meno che cosa?» domandò seccamente il tenente.
«Be’, hanno trattenuto il mio biglietto, in attesa di un permesso dalla sicurezza,» disse Don, balbettando quasi.
«L’hanno trattenuto, eh? Una faccenda di normale prassi; me ne occuperò io, non preoccuparti. Ora puoi andare. Cielo aperto!»
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