Quando finì, lanciò un’occhiata all’orologio. Santo cielo! Avrebbe dovuto alzarsi tra un’ora; non valeva quasi la pena mettersi a letto. Ma gli occhi erano pesanti, gli si chiudevano mentre pensava a questo; vide che la sveglia automatica del letto aveva un quadrante regolabile da «Gentile Bisbiglio» a «Terremoto»; girò la manopola fino all’estremità, e s’infilò tra le coperte.
Lo stavano sbattendo qua e là, una luce accecante gli lampeggiava negli occhi, e una sirena ululava lacerante lungo tutta la scala acustica. Don, gradualmente, si accorse che stava scendendo malvolentieri, faticosamente, dal letto. Blandito da questa obbedienza, il letto smise lo spaventoso trambusto.
Decise di non fare colazione in camera, temendo di riaddormentarsi, e incespicando, con gli occhi semichiusi e gonfi di sonno, s’infilò i vestiti e andò a cercar il bar dell’albergo. Quattro tazze di caffè e un pasto abbondante più tardi, salutato dal personale e armato di spiccioli per il tassi automatico, egli si diresse verso la Stazione Gary. All’ufficio prenotazioni della Interplanet Lines domandò il suo biglietto. Un impiegato diverso da quello del giorno prima si affannò a cercarlo, e poi disse:
«Non lo trovo. Non è con i permessi della sicurezza.»
Questa, pensò Don, è l’ultima goccia.
«Cerchi ancora. Deve esserci!»
«Ma non… un momento!» L’impiegato prese un biglietto bianco. «Donald James Harvey? Lei dovrà ritirare il suo biglietto nella stanza 4012, all’ammezzato.»
«Perché?»
«Non lo chieda a me; io sono un semplice impiegato. Le ho detto quel che è scritto qui.»
Perplesso e completamente disgustato, Don cercò la stanza in oggetto. La porta era spoglia, a eccezione di una targhetta «ENTRATE»; egli eseguì… e si trovò di nuovo davanti al tenente della sicurezza della notte prima.
L’ufficiale sollevò lo sguardo dalla scrivania ingombra di carte.
«Che ne diresti di toglierti dal viso quell’espressione astiosa, Don?» fece, seccamente. «Neanch’io ho dormito molto, sai?»
«Che cosa vuole da me?»
«Togliti i vestiti.»
«Perché?»
«Perché adesso dobbiamo perquisirti. Non avrai pensato davvero che io ti lasciassi decollare senza perquisirti, no?»
Don puntò i piedi.
«Ne ho abbastanza di tutte queste imposizioni,» disse, lentamente. «Se vuole che mi tolga i vestiti, dovrà prenderseli da solo.»
Il poliziotto aggrottò la fronte.
«Potrei darti un paio di risposte convincenti, ma si dà il caso che abbia esaurito le mie riserve di pazienza. Kelly! Arteem! Spogliatelo.»
Tre minuti dopo, Don aveva un occhio chiuso che cominciava a pulsare sordamente, e si stava massaggiando un braccio ammaccato. Decise che, dopotutto, non era rotto. Il tenente e i suoi assistenti erano scomparsi in una stanza attigua, con i suoi vestiti e la sua borsa. Gli venne in mente che la porta esterna non pareva chiusa, ma lasciò perdere subito l’idea; mettersi a fuggire attraverso la Stazione Gary, con l’unico indumento che gli aveva dato sua madre il giorno della nascita, non pareva un’idea molto sensata.
Malgrado l’inevitabile sconfitta, aveva il morale più alto di quando non lo avesse avuto nelle ultime dodici ore.
Il tenente ritornò dopo qualche minuto, e spinse i vestiti verso di lui.
«Eccoli qua. Ed ecco il tuo biglietto. Probabilmente vorrai indossare qualcosa di pulito; i tuoi bagagli sono dietro la scrivania.»
Don accettò il tutto in silenzio, e ignorò il suggerimento di cambiarsi per risparmiare tempo. Mentre si stava vestendo, sentì che il tenente domandava:
«Dove hai preso quell’anello?»
«Mi è stato spedito dalla scuola.»
«Fammelo vedere.»
Don lo sfilò dal dito, e lo lanciò al tenente.
«Se lo tenga, ladro!»
Il tenente lo prese al volo e disse, in tono blando:
«Vedi, Don, non si tratta di un fatto personale. Devi credermi.» Osservò accuratamente l’anello, e poi disse. «Prendilo!» Don lo prese al volo e lo infilò al dito, raccolse i bagagli, e si avviò alla porta. «Cielo aperto,» disse il tenente.
Don lo ignorò.
«’Cielo aperto’, ho detto.»
Don si voltò di nuovo, guardò il tenente negli occhi, e disse:
«Un giorno spero di poterla incontrare… socialmente.» E uscì dalla porta. Avevano trovato la carta, dopotutto; quando si era infilato di nuovo gli abiti e aveva assicurato la borsa alla cintura, si era subito accorto della sua mancanza.
Questa volta Don usò la precauzione di farsi fare un’iniezione antivomito prima del decollo. Dopo avere fatto la fila di fronte al pronto soccorso, gli rimase appena il tempo di passare il peso, prima del segnale di avviso. Quando stava per salire sull’ascensore, vide quella che gli parve una figura familiare, mastodontica sul montacarichi vicino all’ascensore… «Sir Isaac Newton». Almeno, pareva la stessa creatura che aveva fuggevolmente conosciuto il giorno prima, benché Don dovesse ammettere che la differenza di aspetto tra un drago e un altro a volte era troppo sottile per l’occhio umano.
Si trattenne dal sibilare un saluto; gli eventi delle ultime ore lo avevano un po’ smaliziato, e reso più prudente. Rifletté su quegli avvenimenti, quando l’ascensore cominciò a salire lungo la lucida fiancata dell’astronave. Incredibile ma vero, erano passate soltanto ventiquattro ore, anzi, ancor meno, da quando aveva ricevuto il messaggio radio. Gli pareva che fosse passato un mese, e lui, personalmente, si sentiva invecchiato di dieci anni.
Amaramente, pensò che in fondo si erano dimostrati più furbi di lui. Il messaggio nascosto in quel pezzo di carta, qualunque fosse stato, adesso se ne era andato per sempre. Per il bene o per il male, era inutile pensarci più.
La Cuccetta 64, a bordo del Cammino della Gloria , si trovava sul terzo ponte, e faceva parte di un gruppo di sei; il compartimento era quasi vuoto, e sul ponte c’erano i segni nei punti dai quali altre cuccette erano state staccate. Don trovò il suo posto, e legò i bagagli all’apposito scomparto, ai suoi piedi. Mentre stava facendo questo, udì una flemmatica voce britannica alle sue spalle; si voltò, e sibilò un saluto.
«Sir Isaac Newton» veniva cautamente introdotto nel compartimento dalla stiva, che era situata al livello inferiore; per aiutare il venusiano c’erano sei robusti facchini dell’astroporto. Il drago rispose con un cortese sibilo di saluto, continuando a dirigere la difficile opera dei sei uomini per mezzo del voder.
«Piano, amici, piano e tutto sarà facile! Ora, se due, tra voi, vorranno essere così cortesi da posare il piede della mia gamba mediana sinistra sulla scaletta, non dimenticando che io non posso vederlo… Per Giove! Attenti alle dita. Ecco; ora penso di potercela fare da solo. C’è niente che si possa rompere, sulla strada della mia coda?»
Il capo facchino rispose:
«Tutto sgombro, capo. Via gli ormeggi!»
«Se il senso delle sue parole è quello che mi sembra di capire,» rispose il venusiano, «Allora, sulla sua parola… via!» Si udì un rumore di metallo sottoposto a tensioni intollerabili, si udì il tintinnio di vetro che si rompeva, e il gigantesco sauriano si mosse, uscendo dal supporto sul quale era stato sistemato. Una volta entrato nel compartimento, si guardò intorno, con cautela, e si sistemò nello spazio lasciato vuoto per lui. I facchini dell’astroporto lo seguirono, e lo assicurarono al ponte servendosi di cinture metalliche. Il drago girò un occhio in direzione del capo facchino.
«Mi pare che sia lei il capitano di questo gruppo?»
«Sono il caposquadra.»
I sottili tentacoli del venusiano lasciarono i tasti del voder, frugarono in una borsa appesa accanto al congegno, e ne estrassero un fascio di banconote. Il drago posò il denaro sul ponte, e ritornò a manipolare il voder.
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