L’ufficiale medico fissò cupamente il comandante.
«Benissimo, signore… direi che, se il passeggero morisse, dopo che lei gli ha rifiutato quanto le è stato chiesto, la situazione sarebbe molto, molto spiacevole.»
Il comandante si morse il labbro.
«Come lei dice, signore. Ma che mi possano assegnare ai servizi di terra, se io voglio che un drago ubriaco vada avanti e indietro per la mia astronave, come un ciclone. Gli somministri la dose.»
«Io, signore?»
« Lei , signore.»
Essendo l’astronave in caduta libera, era del tutto impossibile versare lo sciroppo e lasciare che il venusiano lo leccasse, né la creatura era attrezzata fisicamente per usare quella specie di poppatoi che gli esseri umani utilizzavano in caduta libera. Ma questo era stato previsto; il contenitore nel quale lo sciroppo era stato versato era del tipo usato nella cucina di bordo per trattenere liquidi o caffè in caduta libera. C’era una pompa a mano, e un corto tubo che poteva essere collegato a qualsiasi posizione desiderata.
Fu deciso in pieno accordo con Sir Isaac, di sistemare l’estremità del tubo il più in fondo possibile alla gola del drago. Ma nessuno parve ansioso di assumersi il lavoro. Dato per certo che il Draco Veneris Wilsonii è una razza civile, infilare testa e spalle tra quelle file di denti aguzzi pareva comunque un invito a una grave rottura nelle relazioni con l’estero.
Don si offrì volontario per il lavoro, e si pentì, quando la sua offerta venne gioiosamente accettata dallo stato maggiore di bordo. Aveva piena fiducia in Sir Isaac, ma ricordava che a volte Sonno gli aveva pestato il piede, del tutto inavvertitamente, pur adorandolo. Sperò che il drago non avesse del disgraziati riflessi involontari; un cadavere, generalmente, non prova nessuna soddisfazione nel ricevere delle scuse.
Mentre teneva l’estremità del tubo saldamente nella posizione indicata, Don tratteneva il respiro, e ringraziò più volte mentalmente la provvidenza per avere fatto quell’iniezione antivomito. L’alito del drago non era fetido come a volte capitava nei suoi colleghi, ma non si trattava neppure di un ambiente profumato. Finito il lavoro, Don ritornò sul ponte con testa e spalle, pronunciando mentalmente una lunga serie di ringraziamenti allo stesso, sconosciuto protettore degli astronauti in difficoltà.
Sir Isaac li ringraziò tutti, per mezzo di Don, e assicurò che ora si sarebbe ripreso con grande prontezza. Nel bel mezzo del suo sibilare, parve addormentarsi di colpo. Il medico di bordo sollevò un peduncolo oculare, e vi accostò una lampadina.
«Credo che la sostanza gli abbia fatto effetto. Lasciamolo in pace, e preghiamo il cielo che tutto finisca bene. Getti ardenti!»
Se ne andarono tutti, piuttosto in fretta. Don squadrò ben bene il suo amico, decise che era inutile starsene là con lui, e seguì gli ufficiali. Il compartimento non aveva un oblò; e lui desiderava dare almeno una buona occhiata alla Terra, mentre l’astronave si trovava ancora nelle vicinanze del corpo planetario. Trovò quel che cercava verso prua, a tre ponti di distanza.
Erano ancora appena a quindicimila miglia dalla Terra; Don fu costretto a pigiarsi vicino alla superficie lucida dell’oblò-schermo, per vedere l’intero pianeta in una sola volta. Dovette ammettere che si trattava di un mondo veramente bello; e per un istante, provò una certa nostalgia, all’idea di lasciarlo. Un globo sospeso là, nel cielo di velluto nero, incrostato di stelle luminose, piccole come capocchie di spillo, inondato dai raggi del sole che lo rendevano luminoso tanto da far dolere gli occhi, era così bello da togliere il respiro.
La linea dell’aurora si era spostata nel Pacifico, oltre le Hawaii, e tutto il continente nordamericano brillava nel sole, esposto al suo sguardo. Il Nord-Ovest del Pacifico era oscurato da grandi nubi di tempesta, ma il Centro-Ovest era chiaro, nitido, e tutto il Sud-Ovest era come cristallo aperto ai suoi sguardi. Poteva distinguere il luogo in cui sorgeva Nuova Chicago con estrema facilità; poteva distinguere il Grand Canyon, e da quel punto l’immaginazione dipingeva i luoghi conosciuti, le colline e i passi e le pianure dove la fattoria si trovava. Era certo che, con un piccolo telescopio, avrebbe potuto distinguere perfettamente i luoghi della sua adolescenza.
Era la stessa visione che doveva essersi presentata ad Harriman… agli albori del volo spaziale, prima della fondazione di Luna City. Un grande pianeta immerso nella luce del sole, al centro di un universo nero e stellato, un’isola calda dalle verdi colline… un nodo di commozione gli strinse la gola. Lui aveva vissuto laggiù, su quel pianeta, e il ricordo era ancora vivo; anche se era nato nello spazio e aveva conosciuto le paludi di Venere e le distese bianche della Luna, e i rossi deserti di Marte erano un concetto familiare, quel mondo verde e azzurro aveva qualcosa che faceva stringere il cuore di chi lo lasciava. Ma lui lo stava lasciando, ora. Le stelle erano davanti a lui, e la Luna, e Marte.
Con un sospiro, finalmente, lasciò il suo posto, e voltò le spalle alle dolci, verdi colline della Terra. Stava affondando nella dolce malinconia di una blanda nostagia, e i commenti di alcuni altri passeggeri cominciavano ad annoiarlo… non le sciocchezze allegre, i gridolini di meraviglia dei turisti, ma le osservazioni saccenti di quelli che si proclamavano veterani degli spazi, e che erano al loro secondo viaggio nell’infinito. Scuotendo il capo, si avviò verso il suo compartimento.
Fu sorpreso, nell’udire il suo nome. Si voltò, e vide che l’ufficiale di bordo che aveva incontrato precedentemente stava galleggiando nell’aria, e veniva nella sua direzione. L’ufficiale aveva con sé il voder di Sir Isaac.
«A quanto sembra, lei è in buoni rapporti con quel coccodrillo troppo ammaestrato che divide il suo compartimento; che ne direbbe di portargli questo?»
«Be’, certamente.»
«L’ufficiale radio dice che ha bisogno di una revisione completa, ma per lo meno adesso potrà funzionare di nuovo.» Don accettò il meccanismo, e si diresse verso poppa. Il drago pareva addormentato, poi un occhio tremolò, gli fece un cenno, e Sir Isaac sibilò un saluto.
«Ho qui la sua voce artificiale,» gli disse Don. «Vuole che la metta a posto io?»
Sir Isaac, con estrema cortesia, rifiutò l’offerta. Don porse lo strumento ai tentacoli e il drago adattò il voder al suo corpo. Poi passò la punta dei tentacoli sui tasti, per controllare il funzionamento, producendo dei suoni che somigliavano allo starnazzare di un branco di anatre spaventate. Soddisfatto, il drago cominciò a parlare in inglese:
«Sono arricchito dal debito che lei ha posto sopra di me,» dichiarò.
«Non è stato nulla,» rispose Don. «Mi sono imbattuto nel secondo a poca distanza da qui, e lui mi ha chiesto di portarlo a lei.»
«Non mi riferisco a questa voce artificiale, ma al suo pronto soccorso quando io ero nel dolore e in pericolo. Senza il suo rapido ingegno, senza il suo desiderio di dividere il fango con uno straniero del quale mai prima d’ora aveva provato l’amicizia, e… inoltre… senza la sua conoscenza della vera lingua avrei potuto perdere la possibilità di raggiungere la morte felice.»
«Shucks!» rispose Don, sentendosi un po’ più rosso in viso. «È stato un piacere.» Notò che le parole del drago erano più lente e un po’ strascicate, come se i tentacoli mancassero dell’abituale destrezza. Inoltre, il linguaggio di Sir Isaac era più pedante che mai, e aveva un accento ancor più britannico… il voder aspirava la pronuncia con liberalità, e trasformava le ‘z’ in ‘f’ secondo la più nobile tradizione dell’antica Londra; Don fu sicuro che il terrestre che aveva insegnato a parlare a Sir Isaac doveva essere nato a poca distanza dal Big Ben e dalla Torre di Londra.
Читать дальше