Nella fila ci fu un’interruzione. Don sentì dire al sergente:
«Amico, lei si è messo nella fila sbagliata. Lei deve ritornare sulla Terra.»
L’uomo al quale il sergente si era rivolto disse:
«No, no! Dia un’occhiata ai miei documenti; io sono un emigrante, e vado su Venere.»
«Lei ha deciso di emigrare con un po’ di ritardo. La situazione è cambiata.»
«Perché? Sicuro, so che è cambiata. Mi dichiaro in favore di Venere.»
Il sergente si grattò il mento, pensieroso.
«Questo non era stato previsto. Atkinson! Lascia passare quest’uomo; sarà il tenente a decidere.»
Quando ebbe finito di esaminare il gruppo che intendeva andare su Venere, il sergente si avvicinò a un microfono situato nella parete, il microfono di un intercom.
«Jim? Qui Mac, dalla sala dei ricevimenti. Hanno già fatto uscire il drago? No? Be’, fammi sapere quando il Cammino sarà di nuovo al portello di carico; voglio caricare subito.» Si rivolse alla piccola folla. «Benissimo, voi terricoli… ci sarà un po’ di ritardo, così ho deciso di trasferirvi in un’altra sala, dove aspetterete di essere rispediti sulla Terra.»
«Un momento, sergente!» esclamò un passeggero.
«Sì? Che cosa vuole?»
«Dove devono aspettare i passeggeri per la Luna?»
«Uh? Il servizio è sospeso. Lei tornerà sulla Terra.»
«Andiamo, sergente, cerchi di essere ragionevole. A me la politica non interessa minimamente; non m’importa sapere chi amministra questa stazione. Ma io ho degli affari urgenti sulla Luna. È essenziale che io raggiunga Luna City al più presto. Un ritardo mi costerebbe milioni!»
Il sergente lo fissò, spalancando gli occhi. Rimase pensieroso per qualche istante, e poi disse:
«Sì, è proprio un peccato. Vede, fratello, in vita mia non ho avuto mai in tasca nemmeno un biglietto da mille; l’idea di perdere milioni mi terrorizza.» I suoi modi ebbero un mutamento repentino. «Mi stia a sentire, pezzo d’idiota, le è mai capitato di pensare a quello che una bomba potrebbe fare alla cupola di Luna City o di Tycho City? E adesso allineatevi, tutti quanti, in fila per due!»
Don ascoltò queste parole con crescente inquietudine. Eppure, il sergente non aveva detto ancora niente a proposito di Marte. Si mise in fila, ma all’ultimo posto. Quando la fine della fila raggiunse la porta, si fermò.
«Muoviti, ragazzo,» disse il sergente.
«Io non torno sulla Terra,» gli disse Don.
«Uh?»
«Io sono diretto a Marte… devo partire con la Valchiria. »
«Oh, capisco. Cioè, tu dovevi partire per Marte… adesso tornerai sulla Terra, a bordo del Cammino della Gloria. »
Con ostinazione, Don disse:
«Guardi, signore, io devo andare su Marte. Lassù ci sono i miei genitori; mi aspettano.»
Il sergente scosse il capo.
«Ragazzo mio, mi dispiace per te. Davvero mi dispiace. Ma la Valchiria non andrà su Marte.»
«Come?»
«È stata requisita, e adesso è un incrociatore da battaglia dell’Alta Flotta. Partirà per Venere. Così penso che per te sia meglio tornare sulla Terra. Lo so, è brutto che tu non possa raggiungere i tuoi genitori, ma questa è la guerra; non guarda in faccia nessuno.»
Don respirò lentamente, e si costrinse a contare fino a dieci.
«Io non torno sulla Terra. Aspetterò qui, fino a quando un’astronave non partirà per Marte. Non mi muovo.»
Il sergente sospirò.
«Se decidi di fare questo, dovrai stare seduto su una meteora, nell’attesa.»
«Uh? Cosa intende dire?»
«Perché,» disse il sergente, lentamente, «Pochi minuti dopo la nostra partenza, qui ci sarà soltanto una grande nube radioattiva. Hai voglia di recitare una parte da protagonista in un contatore Geiger?»
CAPITOLO VI
IL SEGNO NEL CIELO
Don non poté rispondere. I suoi antenati scimmieschi, circondati da tremendi pericoli in ogni momento della vita, probabilmente avrebbero accolto la notizia con calma; Don era un figlio del suo secolo e della civiltà, e la sua vita era stata pacifica, sicura… e non lo aveva certamente preparato a una serie così violenta di colpi. Il sergente proseguì:
«Così sarà meglio per te tornare a bordo del Cammino della Gloria , ragazzo. Anche i tuoi genitori ti darebbero questo consiglio. Torna sulla Terra, e trovati un posticino tranquillo in campagna; sai, per un po’ le città diventeranno posti non troppo igienici.»
Don uscì dallo stato di totale confusione che lo aveva preso.
«Io non voglio tornare sulla Terra! Non è il mio posto; non sono nato sulla Terra.»
«Eh? Qual è la tua cittadinanza? Non che questo abbia importanza; chiunque non sia cittadino di Venere, tornerà sulla Terra a bordo del Cammino della Gloria. »
«Io sono un cittadino della Federazione,» rispose Don. «Ma posso dichiarare la cittadinanza di Venere.»
«La Federazione,» disse il sergente, «Ha visto crollare le proprie azioni, negli ultimi tempi. Ma cos’è questa storia della cittadinanza venusiana? Smettila di parlare per enigmi, e fammi vedere i tuoi documenti.»
Don diede i documenti al sergente. McMastes prima diede un’occhiata al suo certificato di nascita, poi spalancò gli occhi.
«Nato in caduta libera! Che io sia… dimmi, non ce ne sono molti come te, vero?»
«Penso di no.»
«Ma in quale posizione ti mette, questo?»
«Come dicevo. Mia madre è nata su Venere. Io sono cittadino di Venere per diritto di nascita… per acquisizione.»
«Ma tuo padre è nato sulla Terra.»
«E sono cittadino per diritto di nascita anche della Terra.»
«Uh? È stupido.»
«È la legge.»
«Ci saranno delle nuove leggi. Ma adesso, non so dove metterti. Senti… dove vuoi andare? Venere o Terra?»
«Io vado su Marte,» rispose Don, con semplicità.
Il sergente lo fissò, e gli restituì i documenti.
«È troppo difficile per me. E con te è impossibile ragionare. Perciò, la decisione la passo ai miei superiori. Vieni con me.»
McMaster scortò Don attraverso un breve corridoio che terminava in un piccolo compartimento, che era stato rapidamente adibito a ufficio militare. All’interno c’erano altri due soldati; uno stava usando una macchina per scrivere, l’altro era semplicemente seduto senza far nulla. Il sergente infilò il capo nel locale e parlò al soldato che stava oziando.
«Ehi, Mike… tieni d’occhio questo soggetto. Sta attento che non rubi la stazione.» Si rivolse di nuovo a Don. «Ridammi quei documenti, ragazzo.» Prese i documenti, e se ne andò.
Il soldato di nome Mike osservò Don, apparentemente sorpreso, poi non gli prestò più alcuna attenzione. Don posò i suoi bagagli, e vi si mise a sedere sopra.
Dopo diversi minuti, il sergente McMasters ritornò, ma ignorò Don.
«Chi ha le carte?» volle sapere.
«Io.»
«No, Mike, le tue sono segnate. Dove sono le carte oneste?» Il terzo soldato chiuse la macchina per scrivere, frugò in un cassetto ed estrasse un mazzo di carte. I tre sedettero intorno alla scrivania, e McMasters cominciò a mescolare le carte. Si rivolse a Don:
«Che ne diresti di una partitina tra amici, ragazzo?»
«Uh, no, grazie.»
«Ti dà fastidio se giochiamo?»
«Be’, no, certo.»
«Be’, non ti capiterà mai più di imparare così a buon mercato.» I soldati giocarono a carte per circa mezz’ora. Don tacque, e cominciò a riflettere. Si costrinse a credere che il sergente sapeva quello di cui stava parlando; non poteva andare su Marte a bordo della Valchiria perché la Valchiria non andava su Marte. Non poteva aspettare un’astronave successiva, perché la stazione… la stessa stanza nella quale si trovava ora… sarebbe stata fatta saltare. Un fuoco nel cielo.
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