I due incrociatori e il traghetto lunare erano già collegati al corpo principale della stazione; il Cammino della Gloria era fermo accanto al mozzo della ruota, e cominciò immediatamente a scaricare i passeggeri. Don aspettò il suo turno pazientemente, e poi, spingendo avanti il proprio corpo grazie agli anelli metallici appositi, e trascinando dietro di sé i bagagli, si fece avanti, ben presto trovandosi all’interno del Goddard Hotel, ma ancora senza peso, come in caduta libera, nel mozzo cilindrico del Goddard.
Un uomo che indossava la tuta della stazione spaziale guidò Don, e la dozzina di passeggeri che erano con lui, fino a un punto situato quasi al centro del mozzo, dove una grande piattaforma mobile bloccava ogni ulteriore progresso. La porta circolare era aperta e girava molto lentamente, muovendosi insieme al corpo rotante vero e proprio del Goddard.
«Entrate,» ordinò l’uomo. «Fate attenzione a tenere i piedi puntati verso il pavimento.»
Don entrò con gli altri, e scoprì che l’interno della piattaforma era cubico. Una parete portava una scritta in grandi lettere: PAVIMENTO. Don trovò un anello, e si spostò nell’aria, in modo che, non appena fosse stato applicato il peso, i suoi piedi si sarebbero trovati sul pavimento. La piattaforma, in realtà un vero e proprio veicolo, non appena l’uomo in tuta fu salito a bordo, cominciò a muoversi verso il bordo.
Dapprima non ci fu alcun senso di peso, per lo meno non in direzione del ‘pavimento’. Don provò un senso di stordimento, quando l’incremento della rotazione gli fece ronzare l’orecchio. Sapeva di essere stato a bordo di quel veicolo, per metà ascensore e per metà automobile, già un’altra volta, quando aveva avuto undici anni ed era stato diretto alla Terra, per iniziare la scuola e la sua nuova vita laggiù; ma il ricordo era rimasto sepolto per tanti anni, e Don aveva dimenticato tutti gli aspetti spiacevoli dell’esperienza.
Ben presto l’ascensore si fermò; il pavimento diventò il pavimento vero e proprio, benché la gravità fosse ancora inferiore a quella terrestre, e la sensazione di disagio svanì. L’operatore aprì la porta scorrevole e gridò:
«Discesa!»
Don mosse i primi passi all’interno di un vasto compartimento, portando con sé i bagagli. Il compartimento era già affollato da una buona metà dei passeggeri dell’astronave. Don si guardò intorno, alla ricerca del suo amico drago, poi ricordò che l’astronave avrebbe dovuto essere trasferita a un portello di accesso merci, prima che il venusiano avesse potuto sbarcare. Don posò i bagagli sul pavimento, e sedette sopra di essi.
La folla, per chissà quale motivo, pareva inquieta. Don sentì una voce di donna che diceva, accanto a lui:
«È veramente incredibile! Siamo qui almeno da mezz’ora, e sembra che nessuno si sia accorto che siamo arrivati. Questo passa ogni limite!»
Un uomo rispose:
«Abbi pazienza, Martha.»
« Abbi pazienza , dice lui! Ma che bravo! C’è solo una porta di uscita da questo posto, ed è chiusa… e se ci fosse un incendio?»
«Be’, cara, dove penseresti di fuggire, in questo caso? Fuori non c’è nulla, all’infuori di un vuoto nel quale galleggiano delle molecole estremamente rarefatte.»
La donna squittì:
«Oh! Avremmo dovuto andarcene alle Bermude, come volevo io!»
«Come volevi tu , cara?»
«Non essere così meschino!»
Un altro gruppo di passeggeri fu scaricato dall’ascensore, e poi un altro ancora; l’astronave era vuota. Dopo molti minuti di brontolii, durante i quali perfino Don cominciò a meravigliarsi delle carenze nel servizio, l’unica porta — oltre a quella dell’ascensore — si aprì. Invece di un albergatore ansioso di compiacere i suoi ospiti, apparvero tre uomini in uniforme. Gli uomini che erano ai lati del terzo portavano al fianco delle pistole a ‘paralisi di massa’, le stesse che venivano usate per domare le sommosse; il terzo uomo aveva semplicemente una pistola infilata nella fondina. Quest’ultimo individuo fece un passo avanti, piantò i piedi sul pavimento, e posò i pugni sui fianchi.
«Attenzione! Fate silenzio, tutti quanti!»
Ottenne il silenzio richiesto; la sua voce aveva quella sonorità di comando alla quale tutte le folle di tutti i tempi obbediscono senza pensare. Egli proseguì:
«Io sono il sergente McMasters della Prima Squadra di Assalto dell’Alta Guardia della Repubblica di Venere. Il mio ufficiale comandante mi ha mandato qui a informarvi dell’attuale situazione.»
Ci fu un altro breve momento di silenzio, poi un crescente mormorio di sorpresa, di allarme, d’incredulità, e d’indignazione, che ben presto diventò un vero e proprio tumulto.
«Fate silenzio!» gridò il sergente. «E prendete le cose con calma. Non sarà fatto alcun male a nessuno… se obbedirete agli ordini.» Fece una breve pausa, e continuò, «La Repubblica si è impadronita di questa stazione spaziale, e tutti gli occupanti vengono evacuati. Voi terricoli sarete rispediti sulla Terra immediatamente. Quei passeggeri che sono diretti a Venere, essendone cittadini, saranno trasportati in patria… dopo avere superato il nostro controllo di fedeltà. E adesso, cominciamo a mettere ordine.»
Un ometto grasso e nervoso si fece largo tra la piccola folla.
«Lei si rende conto, signore, di quello che sta dicendo? ‘Repubblica di Venere’ dei miei stivali. Questa è pirateria!»
«Ritorna in fila, grassone.»
«Lei non può fare questo. Esigo di parlare con il suo ufficiale comandante.»
«Grassone,» disse il sergente, lentamente. «Torna al tuo posto, prima di ricevere un calcio nello stomaco.» L’uomo arrossì come un papavero, parve soffocare, poi si affrettò a ritornare al suo posto tra la folla.
Il sergente continuò:
«Coloro che sono diretti a Venere formino una fila qui, davanti alla porta. Preparate le vostre carte d’identità e i certificati di nascita.»
I passeggeri, fino a quel momento un gruppo amichevole di compagni di viaggio, si divisero in due campi ostili. Qualcuno gridò, «Viva la Repubblica!», un grido che fu seguito dall’inconfondibile rumore di un violento pugno contro una massa di carne. Una delle guardie si affrettò ad aprirsi un varco tra la folla, per arrestare i disordini. Il sergente sfoderò la pistola, e disse, con voce annoiata:
«Niente politica, per favore. Andiamo avanti con il nostro lavoro.»
In un modo o nell’altro, la fila fu formata. Il secondo della fila era l’uomo che aveva inneggiato alla nuova nazione. Quando presentò i suoi documenti al sergente, disse:
«Questo è un grande giorno! È tutta la vita che lo aspetto!»
«Lo stesso vale per tutti,» rispose il sergente. «Va bene… da quella porta, per l’esame di lealtà. Un altro!»
Don era impegnato a cercare di calmarsi, e a mettere un po’ d’ordine nei pensieri che parevano girare, girare, senza permettergli di comprendere qualcosa di chiaro. E infine fu costretto ad ammettere che era arrivato il momento, che questa era la guerra, la guerra che lui aveva creduto impossibile. Nessuna città era stata bombardata, non ancora… ma quel luogo e quel momento erano il Fort Sumter di una nuova guerra; era abbastanza intelligente da rendersene conto. Per vedere quel che gli stava davanti agli occhi, non aveva bisogno di vedersi minacciato dalla punta di uno stivale nello stomaco.
Si rese conto, provando un brivido, che dopotutto era riuscito a fuggire appena in tempo. La Valchiria poteva essere l’ultima astronave diretta a Marte dalla Terra, per molto, moltissimo tempo. Con la stazione di transito nelle mani dei ribelli, forse sarebbe passati anni, prima che un nuovo incrociatore siderale fosse partito per il pianeta rosso.
Il sergente non aveva detto nulla, fino a quel momento, che riguardasse i passeggeri diretti a Marte; Don si disse che, naturalmente, il primo compito del sergente era quello di dividere i cittadini dei due stati belligeranti. Decise che la cosa migliore da farsi era tenere la bocca chiusa, e aspettare.
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