«Allora, signore, vuol farmi l’onore di accettare questa testimonianza della mia gratitudine per un arduo servizio bene eseguito, e distribuirla tra i suoi assistenti equamente e in perfetto accordo con le vostre usanze, quali che possano essere?»
L’uomo raccolse il denaro, e se lo infilò nella borsa.
«Sicuro, capo. Grazie.»
«L’onore è mio.» I facchini se ne andarono, e il drago rivolse la sua attenzione a Don, ma, prima che i due potessero scambiarsi una sola parola, l’ultimo contingente di carico umano del compartimento discese dal ponte superiore. Si trattava di una famiglia; durante il tragitto, la madre gettò un’occhiata all’interno, e urlò.
Risalì come un fulmine per la scaletta, provocando un ingorgo del traffico nel quale furono coinvolti i suoi discendenti e il suo sposo. Il drago piegò due occhi nella direzione della donna, agitando gli altri nella direzione di Don.
«Povero me!» disse, premendo i tasti del voder. «Lei crede che la situazione potrebbe migliorare un poco, se io assicurassi alla signora di non avere tendenze antropofaghe?»
Don provò un acutissimo imbarazzo; avrebbe desiderato, in qualche modo, di disconoscere quella donna quale sua sorella di sangue e membro della medesima razza.
«È soltanto un’idiota,» rispose. «La prego, non le presti alcuna attenzione.»
«Temo che non sia sufficiente affrontare la cosa in maniera puramente negativa.»
Don sibilò un intraducibile suono di disprezzo, nella lingua dei draghi, e continuò dicendo:
« Che la sua vita possa essere lunga e tediosa. »
«Be’, be’,» replicò il drago. «Una collera irragionevole non è una cosa reale. ‘Comprendere significa perdonare’… come ha detto uno dei vostri filosofi.»
Don non riconobbe la citazione, e quella filosofia, in ogni caso, gli pareva troppo esasperata. Era certo che esistevano delle cose che lui non avrebbe mai perdonato, per quanto potesse comprenderle… aveva alcuni esempi recentissimi, certi fatti che rimanevano bene impressi nella sua memoria. Stava per dire questo al drago, quando l’attenzione di entrambi venne attirata da una serie di suoni che uscivano dalla paratia interna aperta. Due, o forse più, voci maschili erano impegnate in una violenta discussione con una stridula voce femminile, che si levava altissima e a volte sommergeva le voci degli interlocutori. A quanto pareva, (a) lei voleva parlare con il comandante, (b) lei era stata allevata civilmente, e non le era mai capitato d’imbattersi in cose simili, (c) che a quegli orribili mostri non avrebbe mai dovuto essere permesso di scendere a insozzare la Terra; avrebbero dovuto essere sterminati; (d) che se Adolf fosse stato un uomo almeno per metà, non sarebbe rimasto là come un palo, permettendo che sua moglie venisse trattata a quel modo; (e) lei intendeva scrivere alla compagnia, e la sua famiglia non era del tutto priva d’influenza e (f) lei insisteva perentoriamente per parlare con il comandante.
Don avrebbe voluto dire qualcosa, per coprire il suono di quella voce, ma scoprì di esserne quasi ipnotizzato. Dopo qualche tempo, i suoni si allontarano e svanirono nel silenzio; un ufficiale di bordo varcò la paratia aperta, e si guardò intorno.
«È a suo agio?» domandò l’ufficiale a ‘Sir Isaac Newton’.
«Perfettamente, grazie.»
L’ufficiale si rivolse a Don.
«Prenda i suoi bagagli, giovanotto, e venga con me. Il comandante ha deciso di concedere a sua grazia, qui, un compartimento tutto per lui.»
«Perché?» domandò Don. «Il mio biglietto dice cuccetta sessantaquattro, e mi piace stare qui.»
L’ufficiale di bordo si grattò il mento, e guardò attentamente Don, poi si rivolse al venusiano:
«Per lei va bene?»
«Ma certamente. Sarò onorato dalla compagnia di questo giovane signore.»
L’ufficiale si rivolse a Don.
«Be’… d’accordo. Probabilmente, se fossi stato costretto a spostarla, avrei dovuto appenderla a un chiodo.» Guardò l’orologio, e bestemmiò sommessamente. «Se non mi affretto, perderemo il decollo e dovremo aspettare un giorno intero.» Uscì immediatamente dal compartimento.
L’ultimo allarme interno suonò, trasmesso dal sistema di comunicazione di bordo; una voce rauca seguì il suono, gridando:
«A tutti gli uomini: assicurarsi le cinture! Prepararsi al decollo…»
L’ordine fu seguito da una registrazione della chiassosa marcia di Le Compte, Decollo! Il cuore di Don cominciò a battere più in fretta; l’emozione si accumulò dentro di lui. Si sentiva felice, meravigliosamente, incredibilmente felice di ritornare finalmente nello spazio, nel luogo che era la sua patria. Le cose spiacevoli, confuse del giorno precedente furono cancellate dalla sua mente; anche il ricordo della fattoria e di Sonno impallidì.
La musica registrata era programmata con tale scelta di tempo, che il coro finale — il quale dava l’effetto del rombo dei motori — si mescolò al vero ruggito degli ugelli dell’astronave; il Cammino della Gloria cominciò a vibrare e a sollevarsi… poi si lanciò in alto, lontano, nell’azzurro cielo aperto.
Il peso dell’accelerazione non era peggiore di quello subito il giorno prima, a bordo dell’ Espresso di Santa Fé , ma la spinta iniziale durò per più di cinque minuti, minuti che parvero lunghe ore interminabili. Quando ebbero superato la velocità del suono, il compartimento fu relativamente silenzioso. Don compì un enorme sforzo, e riuscì a girare un poco la testa.
La mastodontica mole di ‘Sir Isaac Newton’ era appiattita sul ponte, e la visione portò a Don l’immagine sgradevole di una lucertola schiacciata su una strada di campagna. Gli occhi a peduncolo erano flosci, cascanti come asparagi avvizziti. La creatura pareva morta.
Don lottò per trovare un po’ di fiato, e chiamò:
«Si sente bene?»
Il venusiano non si mosse. L’apparecchio voder era coperto dalle pieghe flosce del suo enorme collo; pareva improbabile che i suoi tentacoli riuscissero a sfiorare delicatamente i tasti, come era necessario; anche se fosse stato libero, il drago non pareva in condizioni di comunicare. In ogni caso, non rispose neppure nella sua lingua sibilante.
Don avrebbe voluto avvicinarsi a lui, ma era immobilizzato dalla tremenda gravità del decollo come il giocatore di rugby che si trova sotto tutti gli altri in una mischia. Con un nuovo sforzo, riportò la testa nella posizione precedente, in modo da poter respirare con minore sofferenza, e aspettò.
Quando la potenza del decollo fu diminuita, il suo stomaco diede un balzo di protesta, poi si quietò; o l’iniezione antivomito aveva funzionato, o lui aveva recuperato il suo vecchio equilibrio spaziale… a meno che le due cose non si fossero unite. Senza attendere il permesso della sala di comando, rapidamente slegò le cinghie, e si avvicinò al venusiano. Si mosse nell’aria, appoggiandosi con una mano alle fasce d’acciaio che tenevano stretto il suo compagno.
Il drago non era più appiattito sul ponte; solo i semicerchi d’acciaio gli impedivano ora di galleggiare nell’aria, nel compartimento. Dietro di lui, la grande coda si agitava floscia, sfiorando le grandi piastre interne dell’astronave e spezzando piccoli supporti sporgenti qua e là.
I peduncoli alla sommità dei quali si aprivano gli occhi della creatura erano ancora inerti, e ogni occhio era coperto da una sottile pellicola. Il drago si muoveva semplicemente allo stesso modo in cui un tronco galleggiante si muove nell’acqua; nulla mostrava che egli fosse vivo. Don strinse il pugno, e lo batté sul cranio piatto della creatura.
«Mi sente? Sta bene?»
Riuscì soltanto ad ammaccarsi la mano; Sir Isaac non rispose. Don rimase dov’era per un momento, domandandosi cosa avrebbe dovuto fare ora. Era certo che il suo nuovo amico si trovasse in cattive condizioni, ma l’addestramento in primo soccorsa non si estendeva agli pseudo-sauriani di Venere. Cercò di frugare nei lontani ricordi dell’infanzia, cercò di pensare a qualcosa, qualsiasi cosa.
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