«Per lavare piatti.»
«Eh?»
«Mi guadagnavo i pasti lavorando là, e abitavo nel ristorante. Non mi piaceva l’idea di mettere troppo spesso l’anello nell’acqua calda, così lo tenevo nella mia camera.»
Bankfield strinse le labbra.
«Riesci quasi a convincermi. La tua storia regge, devo ammetterlo. Eppure, preghiamo entrambi che tu mi stia ingannando. Se tu hai mentito, e sei in grado di condurmi fino a quell’anello, ti sarò enormemente grato. La mia riconoscenza è una cosa buona: tu potresti ritornare sulla Terra, con tutte le comodità possibili, e in condizioni eccellenti. C’è sempre la Terra che aspetta, lo sai, e si tratta del pianeta più bello del sistema solare… non c’è confronto con questo mondo selvaggio, pieno di nebbie, e di malattie, e di paludi! Posso perfino prometterti una moderata rendita annua; noi disponiamo di fondi speciali, per questi scopi. Sì, ragazzo mio, noi possiamo essere molto generosi… e sarebbe una grande occasione, questa, per la tua vita.»
«È molto difficile che io possa ottenere tutto questo… a meno che i suoi uomini non riescano a trovare intatto l’anello nel ristorante.»
«Povero me! In questo caso, suppongo che né io, né tu, potremo mai più tornare sulla Terra. Nossignore, credo che in un caso simile sarebbe meglio, per me, restare qui dove sono… dedicando i miei ultimi anni di vigore al compito di rendere infelice la tua vita.»
A questo punto, sorrise.
«Scherzavo… sono certo che troveremo l’anello, con il tuo aiuto. E adesso, Don, dimmi che cosa ne hai fatto.» Circondò col braccio le spalle di Don, con aria paterna.
Don cercò di scrollarsi dalle spalle quel braccio odioso, e scoprì che non poteva farlo. La stretta era ferrea. Sempre in tono affettuoso, quasi paterno, Bankfield continuò:
«Potremmo risolvere la questione con estrema rapidità, se qui avessimo l’equipaggiamento più adatto. Oppure potrei fare così…» Il braccio che circondava le spalle di Don si abbassò rapidamente; improvvisamente, Bankfield gli afferrò il mignolo della mano sinistra, e lo strinse rabbiosamente. Involontariamente, Don lanciò un gemito di dolore.
«Oh, mi dispiace! Metodi simili mi ripugnano. Colui che li applica, in un eccesso di zelo, frequentemente danneggia il suo cliente, in modo che non ne può più derivare alcun frammento di verità… nel bene o nel male. No, Don, credo che noi aspetteremo qualche minuto, finché non avremo notizie dal servizio medico… il pentothal sodico sembra il metodo più indicato. Ti renderà più disposto a collaborare, non pensi?» Bankfield andò di nuovo sulla porta; «Attendente! Metti in frigorifero questo ragazzo. E manda qui quel Mathewson.»
Don fu condotto fuori della garitta di guardia, e fu fatto entrare in un recinto circondato da filo metallico, usato per ricevere i prigionieri. Il recinto era largo circa dieci metri, e lungo trenta; uno dei suoi lati era comune con la barriera di filo spinato, percorso da elettricità, che circondava l’intero campo di concentramento, il lato opposto lo tagliava fuori dal mondo libero. L’unico accesso era attraverso la garitta di guardia.
C’erano decine di prigionieri, nel recinto, quasi tutti dei civili, benché Don vedesse un certo numero di donne, e un buon numero di ufficiali della Media Guardia e delle Forze di Superficie… ancora in uniforme, ma disarmati.
Immediatamente, Don passò in rassegna i volti delle donne, scrutandoli uno dopo l’altro, speranzoso; ma nessuna di loro era Isobel. Non si era aspettato di trovarla in quel luogo, eppure il non trovarla lo riempì di delusione. Il tempo ormai si faceva breve, per lui; ogni secondo scandiva l’avvicinarsi della sua condanna. Si rese conto, con un’ondata crescente di panico, che probabilmente sarebbero passati ancora pochi minuti, prima che lui venisse portato via, legato e disteso su un lettuccio operatorio, mentre qualcuno gli avrebbe iniettato nelle vene una droga potente… che lo avrebbe trasformato in un bambino balbettante, incapace di resistere all’interrogatorio, anzi, ansioso di parlare, di rispondere a ogni parola. Lui non era stato mai sottoposto a interrogatori con uso di narcotici, ma conosceva fin troppo bene quali sarebbero stati gli effetti della droga. Dai suoi effetti era impossibile proteggersi… neppure un profondo comando post-ipnotico, impiantato solidamente nel suo cervello, come un blocco stabile, avrebbe potuto reggere, nelle mani di un operatore capace.
E qualcosa gli diceva che Bankfield doveva essere uno degli operatori più capaci che esistessero.
Camminò fino all’estremità opposta del recinto, senza alcun motivo reale per farlo, seguendo lo stesso meccanismo psicologico che fa indietreggiare un animale, fino al lato più lontano della gabbia. E si fermò in quel punto, guardando in alto, verso la sommità del recinto, che si trovava a diversi metri di altezza, sopra il suo capo. Il filo spinato era forte e fittissimo, praticamente a prova di qualsiasi tentativo di assalto umano… solo un drago avrebbe forse potuto sfondarlo. Un uomo, però, avrebbe potuto aggrapparsi al reticolato… trovare dei supporti a sufficienza, sia pure ferendosi le mani… il reticolato non era uniforme, e le punte più aguzze si trovavano verso la base. Il reticolato poteva essere scalato. Però, al di sopra della rete metallica, c’erano tre strati di semplice filo; a ogni tre metri, sullo strato più basso, c’era una targhetta rossa… con un teschio e le ossa incrociate, e le parole ALTA TENSIONE.
Don si voltò indietro. L’onnipresente nebbia, rinforzata dal fumo che veniva in pesanti volute dalla città in fiamme, nascondeva quasi la garitta di guardia. Il vento aveva cambiato direzione, e il fumo si stava facendo più denso; Don fu sicuro che nessuno potesse vederlo, all’infuori degli altri prigionieri del recinto.
Tentò di scalare il reticolato, scoprì che le sue scarpe non riuscivano a entrare nelle maglie della rete metallica; allora si tolse le scarpe, e tentò di nuovo.
«Non farlo!» di’sse una voce, alle sue spalle.
Don si voltò. Un maggiore delle Forze di Superficie, senza cappello e con una manica strappata e insanguinata, era in piedi alle sue spalle.
«Non tentare di farlo,» disse il maggiore, in tono ragionevole. «Ti ucciderebbe subito. Lo so; sono stato il supervisore dell’installazione.»
Don si calò al suolo.
«Non c’è alcun modo per togliere la corrente?»
«Certamente… dall’esterno.» L’ufficiale fece un amaro sorriso «A questo ho pensato io stesso. Un interruttore nella garitta di guardia, racchiuso in un contenitore ermetico… e un altro, nella centrale di alimentazione della città, nel quadro di controllo principale. Ma da nessun’altra parte.» A questo punto, s’interrruppe, e tossì. «Scusa… è il fumo.»
Don guardò in direzione della città in fiamme.
«La centrale di distribuzione, in città, e il suo quadro di comando,» disse, sommessamente. «Mi sto domandando se…»
«Eh?» Il maggiore seguì il suo sguardo. «Non so… non saprei dire. La centrale è a prova d’incendio.»
Una voce, alle loro spalle, gridò, nella nebbia:
«Harvey! Donald J. Harvey! Presentarsi alla porta!»
Don si arrampicò in fretta sul reticolato, senza curarsi delle piccole ferite prodotte dagli aculei.
Ebbe un momento di esitazione, un attimo prima di toccare il più basso dei tre strati di filo, e lo sfiorò con il palmo della mano. Non accadde nulla… e allora Don scavalcò il reticolato, e cadde, gettandosi dall’altra parte. Cadde male, facendosi male a un polso, ma si rialzò subito in piedi, e si mise a correre, disperatamente.
Si udirono delle grida, alle sue spalle; senza fermarsi, si arrischiò a guardare indietro. Nel momento in cui guardava, udì il sibilo di un proiettore a raggi. La figura in alto, sulla barriera, sobbalzò e si contrasse, come una mosca toccata da una lingua di fuoco.
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