Rifletté sulla situazione, cercando di non lasciarsi prendere dal panico. Era ancora vicino a Isola Centrale, separato dalla spiaggia solamente da una coltre di nebbia. Non c’era alcun dubbio sul fatto che una ricerca condotta con mezzi appropriati… apparecchi a infrarossi, per esempio, o congegni derivati dal radar, ma più maneggevoli… lo avrebbe fatto scoprire, come uno scarafaggio su un telo bianco. Si trattava semplicemente di attendere che le apparecchiature adatte venissero portate; e poi…
Doveva arrendersi ora, per uscire da quella fanghiglia velenosa finché era in tempo? La certezza della sua imminente cattura rendeva l’idea vagamente consigliabile. Sì, arrendersi… e tornare al campo di concentramento, per dire a Bankfield di cercare Isobel Costello, se voleva trovare l’anello? Si lasciò affondare nell’acqua, spingendosi avanti, e cominciò a nuotare, cercando disperatamente di tenere il viso fuori dell’acqua immobile e limacciosa dal pesante sentore di zolfo.
Quel modo di nuotare non era certamente il suo forte, perché nelle esercitazioni spesso aveva difettato in stile e in costanza; e lo sforzo di tenere il capo fuori dell’acqua serviva soltanto a peggiorare la situazione. Il collo cominciò a fargli male; i muscoli erano tesi come corde, indolenziti; dopo qualche tempo, il dolore si propagò ai muscoli della spalla, e alla schiena. Dopo un tempo indefinito, e un indefinito numero di bracciate, e un’indefinita quantità d’acqua stagnante e limacciosa percorsa nuotando a rana, cominciò a sentire male in ogni parte del corpo, anche nei muscoli del viso, anche negli occhi… eppure, per quel che lui poteva distinguere, avrebbe potuto anche nuotare in una vasca da bagno, una vasca dalle grige pareti di nebbia. Non gli sembrava possibile che nell’arcipelago che componeva la Provincia di Buchanan una persona potesse nuotare così a lungo senza imbattersi in qualcosa… un promontorio sabbioso, una barriera di fango, un isolotto di melma.
Smise di nuotare, limitandosi a galleggiare nell’acqua, muovendo appena le gambe intorpidite e agitando lievemente le mani. Gli parve di udire il rumore di una barca a motore, ma non poté esserne sicuro. In quel momento, non gli importava più nulla; la cattura sarebbe stata un sollievo, per lui, purché lo sottraesse a quell’inferno limaccioso, nero e grigio e impenetrabile, umido e sulfureo ed estenuante. Ma il suono, o l’eco di suono lontano, smorì in lontananza, ed egli si ritrovò nel deserto umido, grigio e informe.
Curvò la schiena, per riprendere a nuotare, e il suo piede toccò il fondo. Maldestramente, con dita intorpidite, mosse i piedi intorno, cercando una conferma… sì, era il fondo… e stando in piedi, poteva tenere il mento fuori dell’acqua. Rimase immobile per qualche secondo, per riposarsi, e poi cercò intorno a sé, alla cieca. Il fondo scendeva da una parte, pareva uniforme, o pareva addirittura sollevarsi, nell’altra direzione.
Ben presto, le sue spalle riemersero, mentre lui continuava a tenere i piedi sul fondo viscido e fangoso. Cercando la strada a tentoni, come un cieco, con gli occhi inutilizzabili, se non per trovare un equilibrio, sondò i contorni del fondo, trovando delle sporgenze che s’innalzavano, per poi essere costretto a indietreggiare, quando il fondo s’inabissava di nuovo, ai lati di quella gibbosità naturale.
Era già uscito dall’acqua fino alla cintura, quando i suoi occhi scorsero una venatura più scura nella nebbia; andò in quella direzione, si ritrovò immerso fino al collo nell’acqua nera. Poi il fondo s’innalzò rapidamente; pochi istanti più tardi, finalmente, Don s’issò sulla terra asciutta.
Neppure in quel momento egli ebbe il coraggio di fermarsi subito; si spostò di qualche metro verso l’interno, e pose tra lui e l’acqua una macchia folta di alberi Chika. Protetto così da un solido schermo naturale dalle operazioni di ricerca condotte da imbarcazioni, Don trovò finalmente la calma necessaria per esaminare le proprie condizioni. Aggrappate alle sue gambe c’erano almeno dodici sanguisughe del fango, ciascuna delle quali era grossa come il pugno di un bambino. Con enorme ripugnanza, egli spazzò via le ignobili creature con il dorso della mano, poi si tolse i calzoni corti e la camicia, e trovò molti altri parassiti, che eliminò subito. Si disse che era stato incredibilmente fortunato a non fare incontri assai peggiori… i draghi erano il prodotto di una diversa linea evolutiva, ed esistevano su Venere molti loro cugini, che avevano la stessa parentela che i gorilla avevano con gli esseri umani sulla Terra. Molte di queste creature sono anfibie… e questo è uno dei motivi per cui i coloni umani di Venere non nuotavano mai.
Con riluttanza, Don indossò di nuovo i suoi indumenti luridi e bagnati, sedette a terra, appoggiando la schiena al tronco di un albero, e riposò un poco. Stava ancora riposando, quando udì di nuovo il rumore di un’imbarcazione a motore; questa volta non c’era ombra di dubbio, era impossibile confondersi. Rimase immobile dov’era, come raggelato, protetto solamente dagli alberi, pregando, tra sé, che quello schermo naturale fosse stato sufficiente, e che gli inseguitori se ne andassero.
Il suono si avvicinò alla riva, e proseguì lentamente alla sua destra; l’imbarcazione stava incrociando nelle acque poco profonde. Don cominciava a sentirsi sollevato, quando le turbine si fermarono, d’un tratto. Nel silenzio, poté udire delle voci.
«Dovremo esplorare questo scoglio di fango. Va bene, Curry… tu e Joe.»
«Che aspetto ha questo individuo, caporale?»
«Be’, ti dirò che il capitano non è stato preciso. Comunque, si tratta di un giovane, avrà circa la tua età. Per semplificare le cose, tu arresta tutto quello che vedi camminare. Non è armato.»
«Vorrei essere ancora a Birmingham.»
«Muoviti.»
Anche Don si mosse… nella direzione opposta, il più rapidamente e silenziosamente possibile. L’isola era coperta di vegetazione… Don sperò che fosse anche vasta, come la fitta vegetazione lasciava supporre. Quello che stava per condurre era un gioco precario nel quale lui era il ladro e i soldati erano le guardie, nel quale lui doveva nascondersi, e per farlo doveva usare tutte le tattiche che ricordava, o che riusciva a escogitare sul momento. Aveva percorso circa cento metri, quando un movimento davanti a lui, in alto, lo fece raggelare di terrore, e accelerò spaventosamente i battiti del suo cuore; si rese conto in quel momento, con una fitta di disperazione, che la squadra dell’imbarcazione poteva aver fatto sbarcare due gruppi di ricerca, in due punti diversi dell’isola.
Il suo panico cessò, quando egli scoprì di trovarsi di fronte non a degli esseri umani, ma a dei gregari. Anche i gregari lo scoprirono, e gli vennero incontro danzando, belando vigorosamente il loro benvenuto, e affollandosi intorno a lui.
«Zitti!» mormorò raucamente Don. «Mi farete prendere!»
I vieni-sopra non prestarono alcuna attenzione a queste parole; loro avevano soltanto voglia di giocare. Don cercò di ignorarli, e comunque di non incoraggiarli, e ricominciò a camminare, accompagnato molto da vicino dall’intero gruppo… almeno cinque gregari. Si stava ancora chiedendo in quale modo avrebbe potuto evitare di essere amato fino alla morte… o per lo meno, fino alla prigionia… quando insieme sbucarono nella radura.
E là c’era tutto il resto del branco, più di duecento capi, dai cuccioli che si strofinavano amorevolmente contro le sue ginocchia, fino al vecchio patriarca dalla barba grigia, dallo stomaco prominente, e alto fin quasi alla spalla di Don. Tutti manifestarono al di là di ogni dubbio che l’ospite era il benvenuto, e che desideravano averlo con loro per un poco.
Una cosa che l’aveva preoccupato veniva adesso chiarita… lui non aveva descritto un circolo, durante la lunga nuotata, e non era ritornato su Isola Centrale. I soli vieni-sopra che vivevano su Isola Centrale erano dei mendicanti semiaddomesticati, sempre pronti a frugare tra i rifiuti e a prendere un boccone qua e là, come quelli che avevano stazionato nei paraggi del ristorante; non esistevano interi branchi.
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