Robert Heinlein - Guerra nell'infinito

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Don Harvey è nato nello spazio, a bordo di un’astronave in caduta libera oltre l’orbita degli asteroidi, da padre terrestre e da madre di cittadinanza venusiana, si ritrova senza patria quando le colonie di Venere decidono di ribellarsi allo sfruttamento della Federazione Terrestre. È la storia della prima guerra cosmica, sullo sfondo di una grande trasformazione del sistema solare, in orbita intorno alla luna si sta costruendo il Cercatore di Orizzonti. La nave interstellare che porterà uomini e donne in un viaggio di centinaia d’anni, generazioni e generazioni su un mondo artificiale, verso altri sistemi stellari; su Marte e su Venere, gli indigeni intelligenti che i terrestri hanno trovato al loro arrivo sui pianeti gemelli ricordano epoche remotissime, nelle quali la Terra, Marte, Venere e i satelliti di Giove facevano parte di un grandioso Impero… Don Harvey, strappato al suoi studi, alla vita che conosceva, dallo scoppio della guerra, sfugge miracolosamente alla distruzione di Circum-Terra, la stazione spaziale che collega la Terra a Luna City e ai pianeti, e finisce su Venere, tra le paludi e le giungle del pianeta nebbioso, braccato da tutti i belligeranti perche, suo malgrado, egli è latore di un messaggio così importante che, da solo, potrebbe cambiare la storia del Sistema Solare.

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La figura sollevò il capo. Don udì la voce del maggiore gridare, con uno squillante, trionfante tono baritonale:

« Venere e Libertà! »

Il maggiore ricadde all’interno del recinto.

CAPITOLO XII

DESERTO UMIDO

Don continuò a correre, senza sapere dove stava andando, senza curarsi di saperlo, purché fosse una direzione opposta a quella del campo di concentramento. Udì di nuovo un rabbioso, mortale sibilo; girò a sinistra, e corse ancora più forte, poi girò di nuovo, sfiorando una macchia di piante di palude. E continuò a correre, chiamando a raccolta tutte le sue forze, ricorrendo anche all’ultima stilla di energia, con il respiro che gli ardeva in gola come un torrente umido e infuocato… poi si fermò bruscamente, con un ultimo sussulto, sulla terraferma, di fronte all’acqua.

Rimase immobile per un momento, guardando e ascoltando. Non c’era niente da vedere, all’infuori della fitta nebbia grigiastra, non c’era niente da udire, all’infuori del pulsare del suo cuore affaticato. No, non era vero, questo… qualcuno stava gridando in lontananza, ed egli udì i suoni di piedi calzati da pesanti stivali, che attraversavano gli arbusti e le piante venusiane, producendo una serie di secchi crepitii. Il rumore pareva giungere dalla sua destra; Don girò a sinistra, e corse lungo il bordo dell’acqua, cercando di scorgere, nella nebbia, il profilo di una gondola, di un ‘coccodrillo’, di una zattera, qualsiasi cosa che fosse stata in grado di galleggiare.

La banchina descriveva una curva a sinistra, piegando verso l’interno; seguì il contorno, poi si fermò, quando si accorse che lo stava conducendo alla stretta lingua di terraferma che univa l’Isola Centrale al Promontorio Est. Era più che certo, pensò, che ci fosse un corpo di guardia, o un posto di blocco, nel punto più stretto del promontorio; gli pareva di ricordare di avere visto una postazione federale in quel punto, quando lui e gli altri erano stati condotti, come un gregge al macello, dalla città al campo di concentramento.

Don ascoltò… sì, lo stavano ancora inseguendo… e gli coprivano la ritirata sul fianco. Non c’era niente, di fronte a lui, all’infuori della riva che si assottigliava, descrivendo la sua curva sempre più esigua, conducendolo irrevocabilmente a una cattura certa.

Per un momento, il suo viso fu sconvolto da una tremenda sofferenza, da una rabbiosa agonia di frustrazione, poi i suoi lineamenti riacquistarono serenità, e nello stesso momento, presa una decisione, Don oltrepassò la riva, immerse i piedi, decisamente, nell’acqua, e cominciò a camminare, allontanandosi dalla terraferma.

Don sapeva nuotare, e sotto questo aspetto differiva dalla maggior parte dei coloni di Venere. Su Venere nessuno ha mai occasione di nuotare; non ci sono acque adatte a farlo. Venere non ha una Luna che possa regolare il corso delle maree; e le maree solari perturbano solo in misura irrilevante le acque eternamente stagnanti e limacciose dell’umido pianeta. Le acque non si gelano mai, non si avvicinano mai alla temperatura critica di 4° che fa «ventilare» e muovere i laghi, i corsi d’acqua e gli stagni della Terra. Il pianeta è praticamente immune da variazioni climatiche, nel senso terrestre della parola, di cicloni, di uragani, di altre violente manifestazioni meteorologiche. Le sue acque giacciono placide sulla superficie… e sotto il loro ciglio accumulano fango e detriti, anno dopo anno, generazione dopo generazione, eone dopo eone.

Gli acquitrini di Venere, deserto umido e insidioso e mortale, giacciono immutabili sotto un cielo sempre nebbioso, tra grige nebbie perenni, stagnanti e limacciose e infide, dall’inizio del tempo, senza conoscere il movimento delle onde, o lo scintillio dei raggi del sole, o la cristallina trasparenza dei grandi ghiacci d’inverno.

Don camminò con decisione, in linea retta, sforzandosi di non pensare alla fanghiglia nera, putrida e sulfurea nella quale si stava addentrando. L’acqua era poco profonda; a cinquanta metri e più di distanza, quando il contorno della riva era indistinto, celato dalla nebbia, era sempre immerso fino alle ginocchia. Si voltò a guardare la parete di nebbia, e decise di spingersi ancor più al largo; se lui non poteva vedere la linea costiera, dalla linea costiera loro non avrebbero potuto vederlo. Si ricordò che era necessario conservare l’orientamento, per non compiere un giro vizioso, e ritornare là dove era iniziata la sua camminata.

Dopotutto, la dura scuola della fattoria era stata opportuna; in quel momento, Don ringraziò i giorni che aveva passato là.

Dopo qualche tempo, il fondo s’inabissò bruscamente, di più di trenta centimetri; facendo un passo, Don scese da quel gradino naturale nella fanghiglia, perse l’equilibrio, e cadde completamente nell’acqua, spalancando le braccia; si riprese, e s’issò nuovamente nel punto in cui il fondo era più basso, congratulandosi per essere riuscito a evitare d’immergere il viso, e soprattutto gli occhi, nella limacciosa, pericolosa acqua del pianeta.

Udì un grido, e quasi immediatamente il rumore che in genere l’acqua produce toccando un forno rovente, enormemente amplificato. A tre metri di distanza, una nube di vapore si sollevò dalla superficie dell’acqua, levandosi in lente, maestose volute nella fitta nebbia. Don tremò, e avrebbe voluto tuffarsi, o nascondersi, ma non c’era modo di nascondersi. Le grida ripresero, e attraverso l’acqua i suoni furono portati distintamente fino a lui, soffocati dalla nebbia, ma sempre comprensibili.

«Da questa parte! Da questa parte! È andato nell’acqua!»

Ancor più lontana, udì la risposta.

«Veniamo!»

Don avanzò con maggiore prudenza, mosse il piede intorno, sentì il punto in cui il fondo si inabissava, provò a discendere da quel gradino naturale, e scoprì che gli era possibile stare in piedi… l’acqua gli arrivava appena sotto le ascelle, ma non di più.

Stava avanzando lentamente, cercando di evitare ogni rumore, e facendo attenzione al suo equilibrio precario, quando udì il suono sibilante del raggio vicino a lui.

Il soldato che si trovava sulla riva aveva immaginazione; invece di sparare a casaccio, come la prima volta, nella nebbia che rendeva indistinti i contorni, e dava continue impressioni di luci e ombre, rendendo praticamente impossibile distinguere il fuggiasco, l’uomo stava prendendo di mira, a ventaglio, la superficie piatta dell’acqua, facendo del suo meglio per mantenere il raggio orizzontale, e muovendolo come lo spruzzo di una pompa. Don si acquattò, fino a quando solo il suo viso fu sopra il pelo dell’acqua.

Il raggio passò soltanto a pochi centimetri dalla sua testa; lo sentì passare, e sentì distintamente l’acre odore di ozono.

Il sibilo s’interruppe bruscamente, seguito da una serie d’imprecazioni antiche come la storia di tutti gli eserciti della terra.

«Ma, sergente…» protestò qualcuno.

«Te lo darò io il sergente! Vivo… hai capito? Hai sentito gli ordini. Se lo hai ucciso, ti farò a pezzi con un coltello arrugginito. No, anzi, non farò niente di simile; ti consegnerò nelle mani del signor Bankfield. Pezzo d’idiota che non sei altro!»

«Ma, sergente, lui stava scappando in acqua; dovevo fermarlo.»

«‘Ma sergente’! ‘Ma sergente’!… non sai dire altro! Procurati una barca! Procurati un pezzo di legno! Trova un motoscafo biposto! Chiama la base, e chiedi se ti possono mandare un elicottero!»

«E dove mi procuro una barca?»

«Trovala! Lui non può fuggire. Lo troveremo… o lui o il suo cadavere. Se troveremo il suo cadavere, farai meglio a tagliarti la gola!»

Don ascoltò, poi riprese a muoversi silenziosamente in avanti… o, per lo meno, in direzione opposta a quella dalla quale parevano giungere le voci. Non era più in grado di distinguere le direzioni esatte; non c’era nulla, all’infuori della nera superficie delle acque, e un orizzonte di nebbia. Per qualche tempo il fondo continuò a essere abbastanza livellato, poi si accorse che stava di nuovo inabissandosi. Fu costretto a fermarsi, perché non gli era più possibile tenere la testa fuori dell’acqua.

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