Robert Heinlein - Guerra nell'infinito

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Don Harvey è nato nello spazio, a bordo di un’astronave in caduta libera oltre l’orbita degli asteroidi, da padre terrestre e da madre di cittadinanza venusiana, si ritrova senza patria quando le colonie di Venere decidono di ribellarsi allo sfruttamento della Federazione Terrestre. È la storia della prima guerra cosmica, sullo sfondo di una grande trasformazione del sistema solare, in orbita intorno alla luna si sta costruendo il Cercatore di Orizzonti. La nave interstellare che porterà uomini e donne in un viaggio di centinaia d’anni, generazioni e generazioni su un mondo artificiale, verso altri sistemi stellari; su Marte e su Venere, gli indigeni intelligenti che i terrestri hanno trovato al loro arrivo sui pianeti gemelli ricordano epoche remotissime, nelle quali la Terra, Marte, Venere e i satelliti di Giove facevano parte di un grandioso Impero… Don Harvey, strappato al suoi studi, alla vita che conosceva, dallo scoppio della guerra, sfugge miracolosamente alla distruzione di Circum-Terra, la stazione spaziale che collega la Terra a Luna City e ai pianeti, e finisce su Venere, tra le paludi e le giungle del pianeta nebbioso, braccato da tutti i belligeranti perche, suo malgrado, egli è latore di un messaggio così importante che, da solo, potrebbe cambiare la storia del Sistema Solare.

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«Questo è il mio ristorante.» Sollevò il coltello, lo soppesò. «E questo è il mio paese.» Lanciò il coltello; la lama descrisse due giri nell’aria, e si conficcò in un asse di legno, dall’altra parte della stanza.

«Faccia attenzione, con quell’arnese! Potrebbe fare del male a qualcuno.»

«Tu vai a letto.»

«Ma…»

«Cerca di dormire un poco. Domani potresti pentirti di non averlo fatto.» Si voltò, e Don non riuscì a tirargli fuori nient’altro. Rinunciò, e andò nel suo sgabuzzino, non con l’intenzione di dormire, ma semplicemente di riflettere su quanto stava accadendo. Per molto tempo, così, rimase sdraiato, con gli occhi fissi sul soffitto. E di quando in quando gli giungeva il rumore della lama passata sulla pietra, del coltello che Charlie stava affilando.

Le sirene lo svegliarono di nuovo; era quasi giorno. Uscì dal suo sgabuzzino, e vide che Charlie era ancora nella sala.

«Cosa succede?»

«Colazione.» Con una mano Charlie sistemò un uovo fritto su un piatto, che già conteneva una fetta di pane, mentre con l’altra mano ruppe un altro uovo sulla padella che già friggeva. Sistemò un’altra fetta di pane sul primo uovo, e porse il sandwich a Don.

Don accettò la colazione, e diede un morso robusto, prima di rispondere.

«Grazie. Ma perché fanno suonare le sirene?»

«Combattono. Ascolta.»

Lontano, molto lontano, si udì il fragore soffocato di un’esplosione; alla fine di questo rumore, e molto più vicino, giunse il sibilo secco di un fucile a raggi. Insieme alla nebbia che galleggiava davanti alla finestra, c’era un acuto odore di legno bruciato.

«Ma…» esclamò Don, con voce alterata dall’emozione. «Allora l’hanno fatto sul serio.» Automaticamente, dimenticando il cibo, affondò nuovamente i denti nel sandwich , con la mente lontana migliaia di chilometri.

Charlie grugnì. Don riprese:

«Dovremmo andarcene da qui.»

«Per andare dove?»

Don non aveva alcuna risposta da offrire a questa domanda. Finì il suo sandwich , continuando a guardare la finestra.

L’odore di fumo si fece più forte. Un plotoncino di uomini apparve in fondo al veicolo, muovendosi con rapidità ed efficienza.

«Guardi! Quelle non sono le nostre uniformi!»

«Naturalmente no.»

Il gruppo si fermò in fondo alla strada, poi da esso si staccarono tre uomini, che percorsero il vicolo, fermandosi a ogni porta per bussare rumorosamente.

«Fuori! Svegliatevi, là dentro… fuori tutti!»

Due soldati raggiunsero il Ristorante Due Mondi; uno di loro diede un calcio alla porta. La porta si aprì.

«Fuori! Dobbiamo appiccare fuoco a questo posto.»

L’uomo che aveva parlato indossava un’uniforme verde chiazzata, con due galloni; teneva in mano un corto fucile Reynolds portatile, e sulla schiena la batteria che lo alimentava. Si guardò intorno.

«Ehi, qui c’è la colazione!» Si rivolse all’altro. «Joe, sta attento che non arrivi il tenente.» Poi guardò di nuovo il Vecchio Charlie. «Ehi, tu, amico… preparaci una dozzina di uova. E cerca di sbrigarti… dobbiamo bruciare immediatamente questo posto.»

Don rimase come paralizzato, e stordito; e non riuscì a pensare a nulla da dire o da fare. Un fucile Reynolds non permette di discutere. Charlie parve dello stesso parere, perché si voltò verso la cucina, come per obbedire.

Poi si voltò di nuovo verso il soldato, e in mano teneva il suo coltello da cucina. Don non riuscì quasi a seguire quel che accadde poi… un lampo di acciaio azzurrino nell’aria, un suono molle, da macellaio, e poi il coltello era già affondato fin quasi al manico nel petto del soldato.

Egli non lanciò alcun grido; parve soltanto moderatamente sorpreso, poi si inginocchiò, lentamente, dove si trovava, con le mani che stringevano ancora il fucile. Quando le sue ginocchia toccarono il pavimento, la testa si piegò in avanti, e il fucile gli sfuggì dalle dita.

Mentre questo accadeva, l’altro soldato era in piedi, immobile, tenendo spianato il proprio fucile. Quando il suo superiore lasciò cadere il fucile, egli reagì, come se quello fosse stato un segnale; sollevò il proprio fucile, e sparò a Charlie, direttamente in viso. Poi si girò, e puntò il suo fucile contro Don. Don si ritrovò a fissare la nera cavità del proiettore.

CAPITOLO XI

C’È LA TERRA CHE ATTENDE

Rimasero così, l’uno di fronte all’altro, immobili, per lo spazio di tre battiti del cuore… e poi il soldato abbassò la sua arma di qualche millimetro, e disse, raucamente:

«Fuori! Svelto!»

Don guardò il fucile; il soldato fece un gesto con la sua arma. Don uscì. Aveva il cuore gonfio e tumultuoso; avrebbe voluto, con tutte le sue forze, uccidere quel soldato che aveva ucciso il Vecchio Charlie. Per lui non voleva dir niente che il suo padrone fosse stato ucciso in stretta osservanza degli usi di guerra. Don non era in condizioni di spirito tali da permettere una valutazione degli atti legali o illegali. Ma era nudo, contro un’arma che non ammetteva discussioni; perciò obbedì all’ordine. Mentre usciva, il soldato cominciò a usare il fucile Reynolds; Don udì il sibilo, quando il raggio termico colpì il legno secco.

Il soldato appiccò fuoco all’edificio senza risparmiare energia; il ristorante parve quasi esplodere. Quando Don uscì dalla porta, il fuoco stava già divampando in una dozzina di punti diversi. Il soldato uscì di corsa, dietro di lui, e lo pungolò con il proiettore ancora caldo, appoggiandolo per un breve istante alla schiena del giovane.

«Muoviti! In cima alla strada.» Don si mise a correre, attraversò il vicolo e si trovò in Strada Buchanan.

La strada era piena di gente, e dei soldati in uniforme verde stavano guidando quella folla verso il centro, come dei pastori avrebbero guidato una mandria sbandata. Molti edifici stavano bruciando, su entrambi i lati della strada; gli invasori stavano distruggendo l’intera città, ma davano agli abitanti la possibilità di sfuggire all’olocausto. Particella di una folla senza volto, granello di polvere nella spiaggia, Don scoprì di venire trascinato da quella corrente, e poi di essere costretto a entrare in un vicolo secondario che non stava ancora bruciando. Dopo qualche tempo, ebbero oltrepassato i limiti della città, ma la strada continuava; Don non era mai uscito dalla città in quella direzione, ma aveva appreso, dopo pochi minuti, dalle parole di coloro che lo circondavano, dove essi erano diretti… al Promontorio Est.

E verso il campo di concentramento che il nuovo governo aveva usato per i nemici stranieri. Quasi tutti i componenti della folla parevano troppo storditi per farci caso. Vicino a Don una donna stava urlando, con la voce che si alzava e si abbassava, come quella di una sirena d’allarme. Don non riuscì a vedere di chi si trattava.

Il campo di concentramento era gremito, dieci volte almeno al di sopra della sua capienza. Gli alloggi del campo non permettevano neppure di stare in piedi; tutti i posti erano occupati. E anche all’aperto i coloni dovevano stare gomito a gomito. Le guardie si limitarono a spingerli all’interno del reticolato, e poi a ignorarli del tutto; gli storditi coloni restarono dov’erano, o vagarono intorno con aria assente, mentre le soffici ceneri grige di quelle che erano state le loro case erano come una pioggia che scendeva sui loro visi, portata dall’umido vento e dalle nebbie dense.

Don aveva ritrovato l’autocontrollo, durante la marcia di trasferimento dalla città al campo di concentramento. Quando fu all’interno, tentò per prima cosa di trovare Isobel Costello. Girò avanti e indietro per il campo, attraversò la folla, cercando, domandando, scrutando i volti. Più di una volta pensò di averla trovata, e poi venne deluso… e non riuscì neppure a trovare il padre della ragazza. Parlò con diverse persone che credevano di averla vista; ma ogni volta l’indizio offerto non riuscì a portarlo da lei. Cominciò ad avere degli incubi a occhi aperti, incubi nei quali la sua giovane, impetuosa amica era morta nel fuoco, o giaceva in un vicolo, con un foro nella fronte.

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