«Perché lei pensa che la Terra non attaccherà?» domandò Don, rompendo il suo abituale silenzio. «A me sembra che noi siamo dei bersagli fermi, qui, come anatre di legno.»
«Certo che lo siamo. Una bomba, e faranno saltare questa pozza di fango dalla palude. Lo stesso per Buchanan. Lo stesso per Città CuiCui. E cosa diavolo otterrebbero, con questo?»
«Non lo so, ma non mi piace l’idea di venire preso a bersaglio da una bomba atomica.»
«Ma non c’è alcun pericolo! Serviti del cervello, amico. Bombardandoci, spazzerebbero via un’infinità di bottegai, e un sacco di uomini politici… e non toccherebbero neppure le regioni dell’interno. La Repubblica di Venere sarebbe più forte che mai… perché questi tre punti sono gli unici bersagli adatti ai bombardamenti, su tutto questo pianeta nebbioso. E dopo, che cosa succederebbe?»
«È lei che racconta; me lo dica.»
«Una buona dose di ritorsione, ecco cosa accadrebbe… con tutte quelle bombe che il commodoro Higgins ha portato via da Circum-Terra. Ci siamo impadroniti di alcuni dei loro incrociatori più veloci, e avremmo i più succolenti bersagli della storia, per esercitarci nel tiro a segno. Tutto quello che vogliamo, da Detroit a Bolivar… acciaierie, centrali di alimentazioni, pile atomiche, fabbriche. Non correranno mai il rischio di pestarci i piedi, quando sanno che siamo prontissimi a colpirli in pieno ventre. Cerchiamo di essere logici!» Il sergente posò la sua tazza, e si guardò intorno, con aria di trionfo.
Un uomo dai modi tranquilli che si trovava in fondo al bancone aveva ascoltato la discussione. Scelse quel momento per dire, a bassa voce:
«Sì… ma come fa lei a sapere che gli uomini forti della Federazione useranno la logica?»
Il sergente parve sorpreso.
«Eh? Oh, andiamo! La guerra è finita, glielo dico io. Dovremmo tornarcene tutti a casa. Io ho quaranta acri delle migliori risaie del pianeta; qualcuno dovrà curare il raccolto, no? E invece, me ne sto qui seduto, a scaldarmi il sedere, giocando all’incursione spaziale così, per esercitarmi. Il governo dovrebbe fare qualcosa.»
CAPITOLO X
«MENTRE MEDITAVO, UN FUOCO S’È ACCESO»
Salmo XXXIX: 3
Il governo fece davvero qualcosa; la legge per la coscrizione venne approvata il giorno dopo. Don apprese la notizia a mezzogiorno; non appena il tumulto dell’ora di pranzo fu finito, egli si asciugò le mani e andò in centro, alla stazione di arruolamento. Davanti all’edificio c’era una lunga fila; Don si accodò, e attese il suo turno.
Più di un’ora dopo, si trovò di fronte a un sottufficiale dall’aria stanca e ostile, seduto dietro un tavolo. L’uomo mostrò un modulo a Don.
«Scriva il suo nome in stampatello. Firmi in fondo, e metta l’impronta del pollice. Poi alzi la mano destra.»
«Un momento,» rispose Don. «Io voglio arruolarmi nell’Alta Guardia. Questo modulo è per le Forze di Superficie.»
L’ufficiale lanciò una sommessa imprecazione.
«Tutti vogliono l’Alta Guardia. Mi ascolti, figliolo, la quota per l’Alta Guardia è stata raggiunta alle nove di questa mattina… adesso non accetto più volontari neppure per la lista di attesa.»
«Ma io non voglio le Forze di Superficie. Io… io sono uno spaziale.»
L’uomo imprecò di nuovo, questa volta con una certa violenza.
«Non ne ha l’aria. Voi patrioti dell’ultimo minuto mi date la nausea… cercando di entrare tra i ragazzi del cielo, per non dovere fare i soldati nel fango. Se ne torni a casa; quando la vorremo, la manderemo a prendere… e non sarà per l’Alta Guardia. Lei sarà un mangiafango, e le piacerà, oh, se le piacerà!»
«Ma…»
«Se ne vada, ho detto.»
Don se ne andò. Quando raggiunse il ristorante, il vecchio Charlie guardò l’orologio, poi il giovane.
«Adesso sei un soldato?»
«Non mi hanno voluto.»
«Una cosa buona. Preparami delle tazze.»
Ebbe il tempo di riflettere, mentre si curvava sul contenitore delle tazze. Benché non fosse portato a piangere sul latte versato, Don poteva capire bene, adesso, come fosse stato intelligente il consiglio del sergente McMasters; lui aveva perduto quella che, probabilmente, era stata la sua unica possibilità (per quanto esile) di raggiungere Marte. Pareva una certezza a tenuta stagna, il fatto che ora avrebbe dovuto passare l’intera guerra (mesi? anni?) facendo il mangiafango nelle Forze di Superficie, non avvicinandosi a Marte più di quanto gli avrebbe permesso la distanza di opposizione… circa sessanta, settanta milioni di miglia nella migliore delle ipotesi. Una distanza dalla quale sarebbe stato impossibile comunicare… anche gridando forte.
Prese in considerazione la possibilità di chiedere l’esenzione dal servizio militare, in base alla sua cittadinanza terrestre… ma scartò l’ipotesi immediatamente. Lui aveva già affermato il suo diritto di venire su Venere, come cittadino del pianeta; dire bianco o nero a seconda delle convenienze non era una cosa che gli andasse bene. E inoltre, si rendeva conto di quanto fosse tenue quella possibilità. In ogni caso, le sue simpatie erano tutte per Venere, indipendentemente da quello che i giuristi avrebbero deciso, alla fine, sulla questione della sua cittadinanza.
E c’era di più. Anche se lui avesse avuto lo stomaco per fare una simile richiesta, non riusciva a raffigurarsi dietro il filo spinato di un campo di concentramento alieno. Ed esisteva un campo di concentramento, lo aveva saputo, sul Promontorio Est. Passare laggiù tutta la guerra, per farsi portare dei pacchetti di cibo e di regali da Isobel, al pomeriggio della domenica?
L’ipotesi era inconsistente; Don non si lusingò neppure per un momento… Isobel era una convinta patriota; lo avrebbe lasciato cadere, come una manciata di fango. E poi, era facilissimo rendersi conto di quanto fossero assurde tutte quelle speculazioni… lui era su Venere e cittadino di Venere, gli piacesse o no… doveva accettare la situazione.
«Ciò che non può essere curato deve essere sopportato»… Confucio, o qualcun altro, aveva detto quella frase. Lui era in ballo, e doveva ballare… non si sentiva troppo sconvolto, all’idea; la Federazione non aveva alcun diritto di esercitare le sue pressioni su Venere, comunque. Dopotutto, di chi era il pianeta? Non certo della Federazione.
La cosa che più gli stava a cuore, in quel momento, era di entrare in contatto con i genitori, e di far loro sapere che lui aveva l’anello del dottor Jefferson, anche se non poteva consegnarlo immediatamente. Avrebbe dovuto andare a controllare all’ufficio dell’I.T. T… forse il periodo favorevole alle comunicazioni tra i due pianeti era già cominciato. Charlie avrebbe dovuto avere un telefono, in quella sua baracca.
Ricordò che gli rimaneva una possibile risorsa, che fino a quel momento non aveva utilizzato… «Sir Isaac». Aveva avuto sinceramente l’intenzione di mettersi in contatto con il suo amico drago, al momento stesso dello sbarco su Venere, ma la cosa non si era rivelata facile. «Sir Isaac» non era sbarcato a Nuova Londra, né Don era stato in grado di scoprire, dall’ufficio locale, il luogo in cui il drago era atterrato. Probabilmente alla Città CuiCui, o a Buchanan… oppure… era possibile, poiché «Sir Isaac» era persona di tale importanza… la Media Guardia poteva avere predisposto in suo favore un atterraggio speciale, secondo i suoi desideri. Avrebbe potuto trovarsi in qualsiasi punto della superficie di un pianeta che possedeva una superficie emersa molto maggiore di quella della Terra.
Naturalmente, doveva essere possibile rintracciare un personaggio così importante… ma il primo passo sarebbe stato quello di consultare l’Ufficio per gli Affari Aborigeni, che si trovava nell’Isola del Governatore. La qual cosa significava un viaggio di due ore, trovando una gondola che lo accompagnasse all’andata e al ritorno, e superando gli ostacoli burocratici che era sicurissimo di incontrare. Si disse che, semplicemente, non ne aveva il tempo.
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