«Che tu sia maledetta, April!» Sentì le ruote slittare, e non cercò di fermarle. «Non potrai più tramutarmi, ora!»
Slittando lateralmente, la macchina abbandonò l’asfalto bagnato. Il volante gli girò violentemente tra le mani, e lui lo lasciò girare. L’automobile cozzò con un sobbalzo contro un macigno sul ciglio della strada e infine precipitò per il dirupo. Barbee s’abbandonò contento, in attesa del crollo finale.
«Addio!», sospirò alla lupa bianca.
Non provò dolore, come aveva temuto. Per un istante, dopo che la macchina si fu abbattuta sul davanzale di roccia con un orrendo stridore di metallo straziato, la tortura fu intollerabile, ma Barbee quasi non avvertì l’urto finale.
Dopo pochi istanti di tenebra assoluta, fu cosciente ancora una volta. Una delle ruote anteriori girava ancora, lentamente, sul suo capo. Un liquido gli gocciolava rapido accanto; sentì l’odore di benzina e prima che il carburante s’infiammasse riuscì a trascinarsi via da sotto il cumulo di rottami che lo schiacciava.
Fu con uno stupore non privo di sollievo che s’accorse che il suo corpo, sebbene ammaccato e dolente, non sanguinava nemmeno. Rotto e intirizzito dai morsi rabbiosi del gelido vento gravido di pioggia, stava dirigendosi barcollando su per l’erta verso la strada, quando la lupa bianca ululò sul ciglio.
Cercò di fuggire alla tremula nota di trionfo di quell’ululato, ma uno sfinimento indescrivibile lo possedeva. Inciampò, e allora si lasciò cadere sulla petraia bagnata, appoggiandosi con le spalle a un macigno viscido di pioggia, e se ne stette così a guardare la figura sottile della lupa sopra di lui, sul ciglio della strada, esattamente nel punto dove la macchina era precipitata.
Udì la voce di April Bell:
«Ma dunque, Will!». E il tono era lievemente sardonico. «Hai proprio cercato di scappare?»
Afferrò una manata di terriccio e sassi e gliela scagliò contro con un gesto fiacco e pesante.
«Maledetta!», singhiozzò. «Non vuoi neanche lasciarmi morire?»
La lupa venne graziosamente giù per l’erta e, mentre lui tentava inutilmente di alzarsi per fuggire, gli leccò la faccia.
«Vattene via!» S’era levato faticosamente a sedere e cercava di respingerla con un braccio debolissimo. «Che diavolo vuoi ancora da me?»
«Solo aiutarti, quando hai bisogno di me.» Sedette davanti a lui, le bianche zanne ridenti. «Ti ho seguito per stabilire un circuito di probabilità che ti aiutasse a liberarti. So che deve essere doloroso e sconvolgente, ma tra poco ti sentirai molto meglio.»
Ma lui si ritrasse dalla lupa, che tentava di sfiorargli ancora la faccia col suo muso umido e fresco.
«Vattene al diavolo!», inveì roco. «Non puoi neanche lasciarmi morire?»
«No, Barbee. Ora non morirai mai più.»
Lui rabbrividì.
«Eh?», fece. «E perché?»
«Perché, Barbee...» La lupa rizzò bruscamente le lunghe orecchie e volse la testa ad ascoltare, in un’immobilità totale. «Te lo dirò in un altro momento... Ora ho la percezione di un altro circuito che dobbiamo prepararci a sfruttare... Riguarda Sam Quain. Ma il tuo amico non può nuocerti, almeno per il momento, e mi vedrai tornare presto.»
Il suo freddo bacio lo stupì, e poi corse via fulminea, lasciandolo là, semidisteso sui sassi. Rimase così per un tempo lunghissimo, sotto la pioggia sottile che lo penetrava fino alle ossa. La lupa bianca non tornava.
Dopo molto tempo, sentendosi tornare un poco le forze, riuscì ad alzarsi e ad arrampicarsi penosamente su per il dirupo, mentre il motore di un autocarro gemeva potente lungo la salita in curva di Sardis Hill.
Traballando, Barbee si pose in mezzo alla strada, nella luce dell’autocarro, agitando pazzamente le braccia; ma l’autista, accigliato, non gli badò. Barbee agitò il pugno, urlando.
La gran ruota dell’autotreno lo sfiorò, e il veicolo proseguì la corsa, rallentando tuttavia nell’iniziare l’ultimo tratto, il più ripido, della salita.
Barbee poté vedere che il camion era vuoto, e il tendone posteriore di chiusura sbatacchiava al vento. Senza pensare corse dietro al veicolo, che ora procedeva a passo d’uomo, mentre l’autista cambiava la marcia. Con uno sforzo sovrumano si arrampicò sul camion e penetrò nella tenebra sotto il tendone. Non c’erano che vecchie coperte militari, che puzzavano di muffa e dovevano essere servite a coprire dei mobili. Barbee si avvolse in una di quelle coperte e stette disteso sulle altre, gli occhi stancamente fissi sulla strada che sembrava dipanarsi nera sotto i suoi piedi.
Era sconfitto, e non aveva più dove rifugiarsi. Perfino la morte gli aveva chiuso la porta in faccia. Non gli restava ora che un bisogno animalesco di sottrarsi alla gelida pioggia e l’apprensione di veder tornare la lupa bianca.
A un tratto si accorse che il camion prendeva la direzione di Glennhaven, e bruscamente Barbee ebbe ancora uno scopo.
Sarebbe tornato da Glenn.
Sentiva il bisogno del consolante scetticismo materialista dello psichiatra. Attese che il camion rallentasse sulla curva presso Glennhaven, e si lasciò cadere sull’asfalto bagnato.
Intorpidito e dolente com’era, cadde lungo disteso per terra. E vi rimase per un po’, la faccia sull’asfalto, così sfinito e annebbiato da non sentire nemmeno il freddo tocco della pioggia. Il latrato acuto di un cane, in una fattoria vicina, lo scosse dal suo torpore, e lui si alzò faticosamente e si avviò barcollando come un ubriaco.
Altri cani si posero a ululare, quando arrivò ai due pilastri quadrati che segnavano l’ingresso di Glennhaven. Prima di entrare, si voltò a guardarsi paurosamente alle spalle, ma non vide gli occhi verdi d’una lupa seguirlo.
Quando l’alta figura dello psichiatra venuto ad aprire si disegnò sulla soglia della sua abitazione privata, Barbee vide che sul suo volto abbronzato non c’era nessuna sorpresa.
«Salve, Barbee. Sapevo che lei sarebbe tornato.»
Barbee rimase là sulla soglia, vacillando, passandosi la lingua sulle labbra stranamente torpide, insensibili.
«La polizia?», domandò in un sussurrò. «È qui?»
Glenn lo gratificò del suo cordiale sorriso lievemente ironico.
«Oh, non preoccupiamoci della legge in questo momento», ammonì. «Lei è conciato veramente male.» I suoi occhi si posarono sull’impermeabile infangato e lacero, sulla faccia barbuta e spettrale. «Perché non si riposa un po’ e lascia che il nostro corpo sanitario risolva i suoi problemi? Telefoniamo allo sceriffo che lei è qui, sano e salvo, e rimanderemo le seccature con la polizia fino a domani. Va bene?»
«Sì», disse Barbee, un po’ incerto. «Ma c’è una cosa che voglio che lei sappia. Io non ho investito la signora Mondrick!»
Glenn batté le palpebre, sonnacchioso.
«Lo so che c’è il suo sangue sul parafango della mia macchina», riprese Barbee al colmo dell’agitazione. «Ma è stata una lupa bianca ad ammazzarla.»
Glenn annuì con aria placida. «Potremo parlarne con molto più comodo domattina, signor Barbee. Ma comunque siano andate le cose — nella realtà o nella sua immaginazione — voglio che lei sia certo che m’interesso molto al suo caso. Mi sembra profondamente sconvolto, ma intendo usare ogni risorsa della psichiatria per aiutarla.»
«Grazie», mormorò Barbee. «Ma lei continua a credere che l’abbia uccisa io.»
«L’evidenza dei fatti è quella che è.» Sempre sorridendo, Glenn cominciò a indietreggiare cautamente. «Non deve più cercare di scappare, Barbee, o bisognerà che io la trasferisca a un altro reparto, domattina.»
«Reparto agitati», osservò Barbee con amarezza. «Scommetto che ancora non sapete come Rowena Mondrick sia riuscita a scappare di là!»
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