Fred Hoyle - La voce della cometa

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Fred Hoyle, nato nel 1915 nello Yorkshire, astronomo e matematico, è autore di romanzi di fantascienza basati su ipotesi rigorose. Tra essi «La nuvola nera» (1957), «A per Andromeda» (1962), «Inferno» (1974).

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«Perché non si sente alcun rumore. Qualsiasi fenomeno del genere registratosi nella bassa atmosfera avrebbe provocato un terribile uragano.»

Continuarono a guardare, ora in preda a una specie di timore reverenziale, mentre il buio si estendeva inesorabilmente al cielo meridionale finché le ultime stelle visibili si ridussero a una striscia a sud, una striscia che diventava sempre più stretta con il passare dei secondi. Quando l’ultimo lembo di cielo si coprì, il buio totale calò su di loro. La loro macchina distava solo una decina di metri, ma quando si misero a cercarla alla cieca, mossi dall’istinto, non riuscirono assolutamente a trovarla. Poi venne loro l’idea di battere le mani. Servendosi di questa specie di sonar primitivo, finalmente incespicarono contro il veicolo.

Mentre tornavano in macchina a Dampierre cominciò a sentirsi una sorta di continuo rombare, come se tanti cannoni stessero sparando in lontananza. Non ebbero bisogno di sgusciare furtivamente attraverso il portone della locanda perché tutta la cittadina era in piedi e riempiva le strade illuminate, ascoltando il rombo proveniente da nord che continuò ancora per molto dopo che Isaac Newton e Frances Margaret ebbero di nuovo raggiunto la loro stanza.

73

L’indomani mattina non ci fu alba. Fu solo quando gli orologi avvertirono che erano passate tre ore dal momento in cui sarebbero dovute spuntare le prime luci del giorno, che un debole chiarore sinistro riuscì a penetrare attraverso la coltre atmosferica fino a terra. E a metà pomeriggio, persino questo debole chiarore se n’era di nuovo andato, per cui, se non fosse stato per l’illuminazione artificiale, le popolose regioni dell’Europa, del Nordamerica e dell’Unione Sovietica sarebbero piombate alle tre e mezzo del pomeriggio in un buio totale, una situazione simile, dal punto di vista pratico, all’inverno artico.

Quasi tutta la gente iniziò la nuova fase della sua vita con la convinzione che la stessa cometa di Halley avesse investito la Terra. Ripetuti comunicati indicanti il contrario, trasmessi dalla televisione e dalla radio, finirono per correggere questa presunzione sbagliata, permettendo in tal modo che si facesse strada un concetto più plausibile, cioè che il missile che aveva colpito la Terra era stato guidato dalla cometa di Halley. Isaac Newton si rifiutò di esprimersi a questo proposito, anche se ripetutamente gli vennero rivolte domande. Diceva semplicemente che la gente doveva trarre da sola le proprie conclusioni. In effetti non era particolarmente difficile trarre conclusioni se si teneva conto del punto nel quale il missile era atterrato. Il bacino artico ha la forma di un enorme cratere. Il principale canale che si diparte da esso è situato tra la Groenlandia e la Norvegia, l’altro più piccolo nello Stretto di Bering tra la Siberia e l’Alaska. Come succede spesso con i crateri, il bacino artico si era riempito d’acqua che era gelata fino a una profondità di circa cento metri diventando non una superficie liscia e piana di ghiaccio come un lago gelato, ma un’abominevole accozzaglia di iceberg che s’incollavano l’uno all’altro d’inverno e si staccavano d’estate, una regione nella quale non riusciva a vivere neppure il più resistente eschimese. Il missile in arrivo era proprio finito in quest’inferno di ghiaccio. Quando le registrazioni dei sismografi di tutto il mondo vennero analizzate il giorno dopo in via preliminare, si vide subito che il missile doveva aver colpito un punto vicinissimo al Polo Nord. Poi, quando le registrazioni vennero analizzate con maggiore cura e precisione, emerse il fatto sorprendente che il missile aveva colpito esattamente il Polo Nord. Una mira incredibile, come disse la gente.

Questa fantastica precisione sarebbe bastata da sola a dimostrare in maniera impressionante la forza di quella che veniva ormai chiamata la terza superpotenza. Eppure bisognò tenere inoltre conto di un altro fatto notevole, che, cioè, il missile aveva colpito la Terra in un punto dove l’impatto non provocò la morte di un solo individuo. Nessuno dei poco frequenti esploratori si trovava a quell’epoca nelle distese ghiacciate del Polo né vi erano stati sottomarini militari in navigazione nell’acqua libera sotto il ghiaccio. Per lo meno non lo si venne mai a sapere, anche se c’erano stati.

Da tempi immemorabili, le nazioni avevano sempre cercato di offrire la prova della propria potenza uccidendo gente. L’ironia della situazione stava nel fatto che il mondo si lasciò impressionare molto di più da qualcosa agli antipodi — dalla terza superpotenza che era riuscita a inscenare una così notevole dimostrazione di forza senza ammazzare nessuno. Questo faceva molto più impressione di quanta ne avrebbe fatta l’uccisione dei preventivati ottanta milioni di vittime. Era come se un campione di scacchi fosse riuscito a infliggere uno scacco matto concepito con estrema sottigliezza invece di fagocitare qualsiasi pezzo esistente sulla scacchiera. Grandi quantità d’acqua erano state sparpagliate in tutte le direzioni dall’intera superficie dell’Oceano Artico, specialmente dalle zone vicine al Polo Nord. Questo non possedeva un momento angolare, come dissero gli scienziati, per cui l’acqua, sparpagliandosi nell’atmosfera a quote superiori ai cento chilometri, non andava soggetta a quella che gli scienziati chiamano la forza di Coriolis. In parole povere, ciò significava che l’acqua, che si condensò ben presto dallo stato di vapore in cristalli di ghiaccio, venne scagliata lontano dal Polo lungo direttrici corrispondenti ai meridiani, un po’ come i raggi sprigionati da alcuni ben noti crateri sulla Luna. Era stato questo processo, al quale avevano assistito Isaac Newton e Frances Haroldsen, che aveva cancellato le stelle. E sempre lo stesso processo era la causa per cui la luce del sole riusciva ad arrivare solo in piccolissima parte sulla superficie della Terra.

Un altro aspetto fortunato caratterizzava la situazione. A differenza delle ceneri vulcaniche che non evaporano e che qualche volta possono metterci degli anni per scomparire dall’atmosfera alta, i cristalli di ghiaccio erano in grado di evaporare. Infatti, ricadendo sugli alti strati della stratosfera nei giorni successivi, i cristalli di ghiaccio evaporarono in misura sufficiente da consentire a una parte della luce solare di arrivare fino alla superficie della Terra, in maniera che la gente potesse in linea di massima muoversi, benché nell’inverno successivo la luce del giorno avrebbe raggiunto al massimo un debole chiarore. Solo nella tarda primavera dell’anno successivo, la gente abitante alle latitudini settentrionali avrebbe rivisto il Sole.

L’energia dispersa in un solo istante nell’Oceano Artico fu enorme secondo i criteri umani e superava la quantità di energia consumata dalla specie umana in tutta la sua storia. Essa fu sul punto di sciogliere il ghiaccio dell’oceano, il mostruoso conglomerato di iceberg esteso su due milioni e mezzo di chilometri quadrati. Non lo sciolse, comunque; le circostanze vollero che entrasse in ballo un altro fenomeno oltre alla fusione diretta del ghiaccio. L’energia fu più che sufficiente per dare origine a immense correnti in entrata nell’Oceano Artico e in uscita da esso, correnti che trascinarono il conglomerato degli iceberg verso sud, soprattutto attraverso il canale tra la Groenlandia e la Scandinavia. Un fenomeno del genere si verifica normalmente nel Nord durante l’estate, ma su scala relativamente molto ridotta. Questa volta, invece, si manifestò su scala enorme. Iceberg con una superficie complessiva di due milioni e mezzo di chilometri quadrati defluirono verso sud nell’Oceano Atlantico dove incontrarono acque che erano state appena riscaldate al massimo durante l’estate al nord. Tutti questi iceberg in movimento verso sud erano condannati a sciogliersi gradualmente. I più grossi sarebbero sopravvissuti durante il successivo inverno nell’emisfero settentrionale e penetrati in gran numero a sud della Gran Bretagna, minacciando la navigazione fino alle regioni tropicali. Nonostante ciò era solo una questione di tempo — di mesi, in realtà — perché ogni iceberg si sciogliesse centimetro per centimetro, finché non ne fosse rimasto solo acqua.

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