Fred Hoyle - L’insidia di Andromeda
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Fred Hoyle & John Elliot
L’insidia di Andromeda
(Andromeda Breakthrough, 1964)
1
Previsioni: variabile
Il segnale d’allarme prese a ronzare sommesso ma insistente, sopra la testa del capitano Pennington, eco discreta della rumorosa campana appesa sulla porta del posto di guardia, dall’altra parte dello spiazzo, di fronte al quartier generale del reparto n. 173 della Marina Britannica.
Pennington cercò a tentoni l’interruttore accanto al letto, alzandosi a sedere. Fissò senza capire il braccio che vibrava tintinnando. Questi campanelli si trovavano in tutte le stanze degli ufficiali; erano dipinti di rosso e servivano a dare il segnale d’allarme n. 1. Tutti sapevano, in pratica, l’unico significato del n. 1: la notifica dei sette minuti che quelli di balistica erano riusciti a garantire, per permettere che si riprendesse fiato prima che la Terza Guerra Mondiale fosse cominciata e finita.
Il capitano Pennington si alzò dal letto. Sentiva uno scalpiccio di piedi in corsa; sapeva che erano quelli dei Commandos della marina, mentre mettevano in atto le istruzioni imparate già da molto tempo. Il telefono accanto al letto squillò proprio nel momento in cui si stava sforzando di entrare nella propria divisa.
«Maggiore Quadring,» disse rapidamente una voce tagliente, «spiacente per il panico di questo provvedimento. Ordini da Whitehall. Non si tratta della cosa grossa, perciò si tranquillizzi. È Thorness. Incendio in grande stile. Probabilmente sabotaggio. Ma può darsi anche che il danno non possa essere stato provocato dal mare. Così abbiamo mandato un S.O.S. ai suoi ragazzi.»
«Thorness!» ripeté Pennington: «Ma è il punto chiave di…»
«Esattamente. Conservi le sue reazioni mentali per più tardi. Venga qui entro un’ora. Quattro gruppi, con anfibi e uomini rana, naturalmente. Io starò ai cancelli per farvi entrare. Dica agli uomini di non fare stupidaggini; le guardie, qui, non perdono tempo a fare domande.»
Il telefono ammutolì con un clic. Pennington controllò il proprio equipaggiamento d’assalto, e uscì di corsa dalle baracche provvisorie degli ufficiali nell’oscurità della neve che cadeva mollemente. Intravedeva i contorni delle ombre degli uomini, al fianco delle loro auto e degli anfibi, con i motori già avviati. Non si vedeva una luce.
«Bene,» gridò nel buio, «sarete contenti di sapere che non si tratta di quello. Ma nemmeno di un’operazione finta. Sono nate delle grane serie alla stazione dei missili, laggiù a Thorness. Io ne so quanto voi, comunque stiamo andando perché probabilmente ci sarà da fare un lavoro in mare. Naturalmente, potete usare i fari. Stabilirò io la velocità: dovremmo tenerci sugli ottanta di media. Tenete aperte le radio finché non ordinerò diversamente. Andiamo!»
Una Land Rover girò e venne a fermarsi al suo fianco. Egli vi salì. Gli ordini si susseguivano veloci, mentre i marines salivano a bordo dei camion. Pennington fece un cenno al suo autista, e la colonna uscì rombando dal recinto.
C’era un tratto di settanta chilometri dalla loro base al promontorio solitario, puntato verso l’Atlantico, sul quale era stato costruito Thorness, il centro nervoso delle rampe di lancio per la prova dei missili. Tutta la zona era stata evacuata dai civili, e la strada, serpeggiante ed ondulata, spianata e raddrizzata per il trasporto dei missili e del combustibile. Pennington compì il tragitto in 55 minuti precisi.
Il cancello principale, tra cavalietti uniti da festoni di filo spinato, era chiuso. Sotto i riflettori montavano la guardia sentinelle armate di fucili automatici. Accanto a loro, sedevano immobili e vigili dei cani Dobermann Pincher. Al rumore del convoglio in arrivo, il maggiore Quadring uscì dal fabbricato di cemento del posto di guardia con un sottufficiale. Quadring era un ufficiale di mezza età, snello, vestito elegantemente, e con un aspetto tranquillo. Dopo aver dato una rapida occhiata ai segni di riconoscimento del reparto, che erano visibili sulla macchina di Pennington, dette ordine che il cancello fosse aperto.
«Arrivate fino all’area di parcheggio, in fondo, a sinistra,» disse a Pennington che saltava giù. «Dica ai suoi ragazzi di stare tranquilli, ma di rimanere accanto alle auto. Poi ritorni qui; le farò un quadro della situazione. Davanti ad un bicchiere del solito tè; corretto, naturalmente.»
Più avanti, oltre i riflettori all’entrata, una doppia fila di luci, allineate nella notte nebbiosa, costeggiava la strada principale del campo. La neve aveva smesso di scendere e quella già caduta stava diventando fanghiglia; per questo il terreno era scuro, e altrettanto scuri erano i fabbricati del campo, ad eccezione delle finestre dove brillavano le luci di emergenza.
Nell’interno, un’altra zona di debole luce rompeva il buio, nel punto in cui le lampade portatili erano state dirette sulla costruzione in cui si trovava il calcolatore più importante; ed un velo più spesso — di fumo — galleggiava spandendo un odore sulfureo, sopra la nebbia. Il maggiore Quadring guidò Pennington attraverso le costruzioni di cemento, fino alla baracca di guardia.
Soltanto alla luce della lampadina non schermata nella stanza del posto di guardia, era chiaramente visibile che Quadring era un uomo preoccupato. Il suo volto appariva grigiastro per la fatica e per lo sforzo, e la porzione di rum che versò nel proprio bicchiere di tè fu più che abbondante.
«Mi dispiace per questa sortita in una notte simile, e in un posto dimenticato da Dio come questo qui. Penso che Whitehall e la Highland Zone abbiano un po’ esagerato con l’allarme n. 1 e l’escursione; ma, dopotutto, io sono solo un semplice soldato. Loro sanno meglio di me quello che sta succedendo. Per quanto, perfino alla mia mente non tecnica, tutto questo sembri un maledetto imbroglio.»
Rifiutò l’offerta di una sigaretta da parte di Pennington, e cominciò a schiacciare del tabacco dentro una pipa annerita. «La nebbia del mare si è richiusa come un lenzuolo su tutta la costa. Dalla stazione si finisce direttamente dentro dell’ovatta. Non si vede un centimetro al di là del proprio naso. La nebbia si alzerà all’alba, probabilmente per la pioggia o il nevischio. Ve lo dico io, è un posticino proprio simpatico.
«Circa quattro ore fa, qualcuno o qualche cosa ha attaccato questo posto, e ne ha distrutto il cervello. Il che significa, se il mio lavoro qui è davvero vitale come mi si dice, che la vecchia Lady Britannia è stata depredata del suo potere, della sua ricchezza, e di quasi tutte quelle cose sulle quali si basavano i suoi politici.»
Pennington lo guardò, scettico. «Francamente, signore, non crede di stare drammatizzando troppo le cose? Voglio dire, tutti sanno che Thorness è una base di prova per i missili, e il posto dove funzionano quei calcolatori che hanno permesso alle I.B.M. di intercettare il messaggio così bene. Ma, insomma, queste macchine non sono uniche. Gli yankees e gli altri della N.A.T.O…»
«Le macchine erano uniche,» rispose Quadring. «Se lei sommasse tutti i calcolatori che sono in uso nel paese per l’industria e per il governo, non sembrerebbero più importanti della cassa di un negozio, a confronto con quel giocattolo scientifico, che ora è un intrico rovinoso di valvole, fili e cavi saltati. Nemmeno i missili sono così importanti.»
Pennington sorseggiò il suo tè al rum, cercando di mettersi più comodo sulla dura sedia di legno. «Naturalmente, anch’io ho sentito qualche accenno abbastanza bizzarro sul lavoro secondario che si svolge qui,» disse poi con una smorfia, «sono pettegolezzi che si fanno al bar. Questo tipo di cose doveva per forza dare il via alle chiacchiere.»
«Niente che eguagli la realtà,» disse Quadring. «Ho avuto l’autorizzazione dall’alto di tracciarle un quadro generico della cosa. I suoi amici ubriaconi del bar non hanno per caso borbottato nei loro bicchieri qualche cosa a proposito dell’esperimento Dawnay, eh?»
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