Fred Hoyle - La voce della cometa

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Fred Hoyle, nato nel 1915 nello Yorkshire, astronomo e matematico, è autore di romanzi di fantascienza basati su ipotesi rigorose. Tra essi «La nuvola nera» (1957), «A per Andromeda» (1962), «Inferno» (1974).

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Fred Hoyle

La voce della cometa

A Geoffrey e Evelyn Jackson

Longanesi & C., Milano 1986.

Traduzione dall’originale inglese «Comet Halley» di Giorgio Cuzzelli.

Consulenza scientifica di Massimo Turchetta.

PARTE PRIMA

PRIMO CONTATTO

1

Frances Margaret Haroldsen infilò la bicicletta in una rastrelliera davanti al New Cavendish Laboratory per raggiungere subito con andatura da atleta l’ingresso principale. Venticinquenne, laureata in fisica, assistente di laboratorio all’università, era il tipo di ragazza che gli uomini guardano subito una o due volte e poi continuano a guardare.

Il suo ufficio si trovava in uno dei corridoi al pianterreno, un corridoio interno, buio perché di sabato pomeriggio erano accese solo poche luci. Come mai, si domandò, certi edifici, che appaiono perfettamente normali quando sono occupati nei giorni lavorativi, hanno l’aria di essere composti solo di androni e spazi vuoti quando non c’è nessuno durante il week-end. Era un pomeriggio di sabato di fine ottobre, uno di quegli indimenticabili pomeriggi di Cambridge con il cielo terso, nei quali si ha la sensazione che tutta la città sia pervasa dal fumo di legna che brucia. Gli studenti erano pronti ad affrontare il nuovo anno accademico, tutti ragazzi abbastanza giovani per credere di avere a disposizione il mondo intero. Era un pomeriggio nel quale il suono si propagava nell’aria frizzante a distanza tale che si potevano sentire persino al Cavendish Laboratory le sporadiche urla della folla radunata al campo di rugby dell’università nella Grange Road. Frances Margaret non era ancora giunta al proprio ufficio che dal fondo del corridoio venne il rumore di una porta sbattuta con forza. Un giovanotto snello, alto circa un metro e ottanta, uscì a precipizio da uno degli uffici. Nella sagoma che s’intravedeva nel corridoio mal illuminato, Frances Margaret riconobbe Mike Howarth, anche lui un assistente di laboratorio.

«Ciao, Mike, qualcosa non va?» esclamò la ragazza mentre la figura si avvicinava.

«Questa roba qui», rispose Howarth asciutto, tendendo una busta che aveva estratto con rabbia dalla tasca interna del giaccone foderato di pelliccia.

Una volta entrati nell’ufficio di Frances Margaret si vide che sulla busta spiccavano lo stemma e le iniziali del CERC, il grosso consiglio di ricerca gestito dal governo. Mentre la ragazza leggeva la lettera, Howarth deponeva la cartella, che teneva in mano, su una sedia.

«Hanno revocato il mio contratto», esplose Howarth.

«Vedo. Che peccato», commentò Frances Margaret.

«Più che un peccato è un disastro.»

«Direi che è una gran brutta cosa, Mike, tuttavia non la considererei un disastro. Il CERC non ti ha dato una coltellata né una randellata in testa.»

«Ah, no?» esclamò Howarth.

«Dovremo pensare sul da farsi», si offrì Frances Margaret, decisa a essere d’aiuto nei limiti del possibile. «Il guaio è che quelli ti diranno probabilmente che avevi imboccato un sentiero pericoloso.»

«Come avrei potuto ottenere i risultati che ho ottenuto, altrimenti?»

«Proprio per questo non è un disastro totale», continuò Frances Margaret in tono sempre incoraggiante. «Hai ottenuto qualche risultato. Il CERC non può cancellare ciò che hai già scoperto.»

«Ho scoperto abbastanza per convincere me stesso. Abbastanza per convincere te e forse qualcun altro. Ma non abbastanza per renderlo di pubblica ragione. Dovevo captare altri segnali dalla cometa di Halley. Così, la gente si limiterà a prendermi in giro. Non ti pare già di sentire le risate?»

«Possiamo appellarci contro la decisione.»

«Che illusione! Lo sai, no, come vanno a finire queste cose?»

Frances Margaret trasse un sospiro e annuì.

«Sarebbe di grande aiuto se avessimo un titolare della cattedra in grado di imporsi con la sua autorità.»

«Hanno tenuto in ballo la carica per oltre un anno, ormai», brontolò Howarth riprendendo la lettera e infilandosela in tasca.

«Immagina un po’: tenere in ballo la cattedra del Cavendish! Dio sa dove andremo a finire. Ma io sono deciso a battermi. Comunque.»

«Resta da domandarsi «come»?»

«Anche questo lo sa solo Iddio. Il laboratorio è agonizzante. Non ti è mai venuto in mente di piantarlo, Frances Margaret?»

«Continuo a pensarci. Pensavo di trovare un posto al CERN.»

Howarth prese la cartella mentre si accingeva ad andarsene e disse: «Fisica delle particelle. Una materia nella quale tu sei più esperta di me».

Segnali da una cometa, rifletté Frances Margaret mentre la porta dell’ufficio si chiudeva. Un’assurdità. Eppure c’era qualcosa di decisamente strano nei dati raccolti da Mike Howarth, per quanto scarsi potessero essere. Inoltre c’erano uno o due punti davvero curiosi che lei stessa aveva notato. Aveva pensato di parlarne a Mike, ma questi era talmente alle prese con i propri problemi che lei aveva deciso di lasciar passare il week-end. Poi, all’improvviso le parve ingiusto lasciarlo andare senza raccontargli ciò che aveva scoperto. Decisa a richiamarlo, corse fuori dell’ufficio.

Mike Howarth aveva fatto quasi in tempo a raggiungere il portone esterno del laboratorio. Mentre correva lungo il corridoio, la ragazza notò una luce diffusa proveniente da dietro l’angolo che svoltava nell’atrio principale. Pensò che Mike doveva aver acceso le luci e continuò a correre. Ma qualcosa in quella luce non andava: era troppo rossa per provenire dall’illuminazione a fluorescenza usata nel laboratorio. La luce si fece più intensa mentre svoltava l’angolo, ma quando Frances Margaret raggiunse l’atrio principale scomparve, e anche Mike Howarth era scomparso. Un’occhiata le bastò per constatare che l’illuminazione a fluorescenza non era stata accesa.

Frances Margaret riprese la bicicletta e imboccò lentamente il viale che porta dal New Cavendish Laboratory alla Madingley Road. Tentava di persuadersi che la faccenda della luce in realtà non era così sinistra come le era sembrata. Si era imposta di ritornare lungo il corridoio al proprio ufficio. Ma dopo aver preso una cartella di documenti se ne era andata in fretta, se non proprio a gambe levate. In seguito si convinse di aver saputo sin d’allora che cos’era quella luce; infatti l’avrebbe vista ancora.

2

Due giorni più tardi, lunedì mattina, alle dieci in punto una macchina con targa diplomatica si fermava davanti al cancello principale del CERN, il Consiglio Europeo delle Ricerche Nucleari, alla periferia di Ginevra. Un uomo dall’aspetto estremamente florido e rubizzo mostrò alcuni documenti alla guardia al cancello e questa fece subito un cenno con la mano perché l’automobile proseguisse.

Un’ora prima, due uomini si erano incontrati in uno degli uffici amministrativi del CERN. Entrambi dovevano aver superato da qualche anno la trentina ed entrambi erano studiosi di fisica. Uno proveniva da Amburgo, nella Germania Occidentale, l’altro da Cambridge, in Inghilterra — benché il lieve accento di quest’ultimo e la statura eccezionalmente alta rivelassero che non doveva essere natio dell’Inghilterra orientale bensì del sudovest dell’isola. Lui e il tedesco stavano esaminando immagini riprese in una camera a bolle, sparpagliate su un lungo tavolo.

«Beh, Kurt», osservò infine l’inglese con un’espressione insieme divertita e perplessa, «a vederlo così si direbbe proprio il quark che cerchiamo. Finalmente.»

Il tedesco aveva la fronte spaziosa e un ciuffo di capelli ribelle che era costretto a ravviarsi di quando in quando, come fece anche in quel momento.

««Ja», si «comporta» come il top quark. Pettini vuole pubblicare.»

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