Arkadi Strugatzki - È difficile essere un dio
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- Название:È difficile essere un dio
- Автор:
- Издательство:Marcos y Marcos
- Жанр:
- Год:2005
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Il Re ha messo al bando tutti gli intellettuali.
Gli studiosi inviati dal pianeta terra, ormai pacifico ed evoluto, cercano di confondersi tra gli abitanti di Arkanar, studiano, osservano, trasmettono informazioni.
Intervenire? Creare forzatamente nuovi equilibri, nuove alleanze?
Funzionerebbe? Sarebbe giustificabile eticamente?
Com'è difficile essere un dio!
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«Queste persone però non possono esistere e non possono operare in un ambiente di avidità banale, di interessi plebei, di autosufficienza ottusa e desideri esclusivamente sensuali. Hanno bisogno di un ambiente nuovo, di un’atmosfera permeata di conoscenza generale e onnicomprensiva, imbevuta di pulsione artistica: hanno bisogno di scrittori, poeti, pittori, compositori… Anche qui i Grigi si troveranno costretti a fare concessioni. Quelli che resisteranno saranno spazzati via da rivali più abili nella lotta per il potere; quelli che non saranno d’accordo su queste concessioni si scaveranno la fossa senza nemmeno accorgersene, inevitabilmente, paradossalmente. Perché gli egoisti ignoranti e fanatici sono condannati, quando la cultura si risveglia tra il popolo, in tutti i campi: dalla ricerca scientifica alla capacità di apprezzare la buona musica. Tutto questo è seguito da un’epoca di vasti sommovimenti sociali, accompagnati da un progresso inimmaginabile della scienza.
Ma insieme all’intellettualizzazione di tutti gli strati sociali nascerà un’era in cui i seguaci dei valori ormai vacillanti riuniranno le loro forze per ingaggiare una battaglia la cui crudeltà rigetterà l’umanità nel Medioevo. Questa lotta fatale vedrà la caduta dei Grigi, per creare una società liberata da tutte le distinzioni di classe e dall’oppressione dell’uomo…» Rumata continuava a osservare la città, un globo pietrificato velato dall’oscurità.
Da qualche parte, in una stanzetta soffocante, c’era Padre Tarra che si contorceva su un misero pagliericcio, tormentato dalla febbre; ma accanto a lui c’era Frate Nanin, seduto a un tavolino, ubriaco, felice e maligno, e stava terminando il suo Trattato sulle voci, il libro in cui ridicolizzava con gusto la vita sotto i Grigi. E da qualche altra parte il poeta Gur camminava lentamente su e giù per le sue stanze vuote e lussuose, accecato dalla disperazione e terrorizzato al pensiero che, malgrado tutto, dagli abissi della sua anima lacerata cercassero di venire alla luce nuovi mondi, mondi nuovi e luminosi che sembravano ancorati a una forza sconosciuta, abitati da esseri umani meravigliosi ed emozioni sconvolgenti. E laggiù passava la notte il dottor Budach, chissà come. Umiliato, messo in ginocchio, battuto, ma ancora vivo…
«Tutti fratelli miei» pensò Rumata. «Io sono uno di voi. Dopotutto siamo della stessa carne!» Improvvisamente fu colpito dal dubbio di non essere affatto un dio che li proteggeva con la sua mano, ma piuttosto un fratello che aiutava un altro fratello o un figlio che correva in soccorso del padre. «Ucciderò Don Reba». «A che scopo?» «Ha sterminato i miei fratelli». «Non sa quello che fa». «Ma sta assassinando il futuro». «È innocente: è figlio del suo tempo». «Vuoi dire che non si rende conto della sua colpa?
Ma che importa se lo capisce o no?». «E Padre Zupik? Cosa non darebbe perché qualcuno uccidesse Don Reba. Adesso non sai cosa dire. Dovrai uccidere molta gente, vero?» «Non so. Forse. Uno dopo l’altro. Tutti quelli che vogliono impedire che il futuro si avveri». «Sempre la stessa storia. Veleno, bombe… Non hanno mai cambiato niente». «Oh, sì, invece. È nata la strategia della rivoluzione». «Cosa t’importa della strategia della rivoluzione? A te importa solo uccidere» «Sì, voglio uccidere». «Sei davvero in grado di farlo?» «Ieri ho provocato la morte di Donna Okana. Sapevo che sarebbe stata uccisa nel momento stesso in cui sono andato a casa sua con una piuma dietro l’orecchio. Mi spiace solo di averla uccisa per niente. Sono quasi riusciti a insegnarmi queste cose, quassù». «Ma è un male. È un problema serio, e pericoloso. Ti ricordi di Sergei Koshin e George Lenni? O di Sabine Krueger?» Rumata si passò la mano sulla fronte madida di sudore. «Sei qui a meditare, a contemplare, a preoccuparti… E riesci solo a tirar fuori spazzatura».
Si alzò in piedi e aprì la finestra. I gruppi di luce sparsi qua e là erano in movimento, spezzati, dispersi, lontani; si muovevano in fila, svanivano dietro edifici invisibili e poi riapparivano. Sulla città si alzava un rombo indefinibile, un frastuono distante fatto di mille voci. Due esplosioni illuminarono i tetti circostanti. Qualcosa era esploso nella zona del porto. Cominciava. Nel giro di poche ore si sarebbe saputo cosa significava l’unione tra le orde Grigie e le armate notturne, questa alleanza innaturale tra i piccoli bottegai e i ladri. E si sarebbe anche saputo cosa aveva ottenuto con questo Don Reba, per quale nuova provocazione aveva brigato, o, per dirla in parole povere, chi doveva morire quella notte. Probabilmente stava per iniziare un’altra notte dei lunghi coltelli, un salasso tra i capi delle orde Grigie e allo stesso tempo la distruzione di quegli sfortunati baroni che si trovavano in città, come anche di quegli aristocratici che davano più fastidio. «Chissà cosa sta facendo Pampa» pensò. «Speriamo non stia dormendo. Solo così potrebbe farcela».
Non c’era più tempo per lasciar correre i pensieri. La porta cominciò a tremare sotto una gragnuola di colpi-Qualcuno gridava: «Aprite! Aprite!» Rumata tirò il chiavistello. Un uomo mezzo svestito, pallido di terrore, afferrò Rumata per la giubba e gridò con voce tremante: «Dov’è il principe? Budach ha avvelenato il Re! Spie irukane hanno iniziato una sommossa in città! Salvate il principe!»
Era il maresciallo del principe, uno stupido, servo ossequioso del suo padrone.
Spinse da parte Rumata e si precipitò nella stanza da letto del ragazzino. Le donne cominciarono a urlare. Intanto, però, dalle porte aperte entrarono gli Sturmovik brandendo le asce da guerra, con i visi sconvolti e madidi di sudore.
«Indietro» disse Rumata, calmissimo.
Dietro di lui, dalla camera da letto, si sentì un grido breve e soffocato. «Siamo nei guai» pensò Rumata. Si nascose in un angolo, barricandosi dietro un tavolo.
Sturmovik ansanti cominciarono a riempire la stanza. Sembravano in tutto una quindicina. Un tenente in uniforme grigia, in prima fila, sollevò il pugnale.
«Don Rumata?» chiese, ansando. «Siete in arresto. Arrendetevi».
«Venite a prendermi!» rispose Rumata, guardando velocemente verso la finestra.
«Prendetelo!» ansimò il tenente.
Quindici uomini ubriachi armati solo di asce non erano un problema per un esperto in tecniche di difesa che là sarebbero state conosciute solo trecento anni più tardi. Il gruppo avanzò e poi indietreggiò di nuovo. Sul pavimento restarono alcune asce; due Sturmovik si contorcevano per il dolore e si premevano sullo stomaco le mani fratturate, inciampando nei compagni alle loro spalle. Rumata sapeva il fatto suo. Gli attaccanti erano accolti da una barriera densa e scintillante creata dalle spade roteanti, e sembrava impossibile penetrare quella difesa d’acciaio. Gli Sturmovik indietreggiarono, guardandosi confusi. Emanavano un lezzo penetrante di birra e di cipolla.
Rumata spostò il tavolo e andò rasente il muro verso la finestra, tenendo sempre d’occhio i soldati. Dalle ultime file partì un coltello, che però mancò il bersaglio.
Rumata rise, mise un piede sul davanzale della finestra e disse: «Provateci un’altra volta e vi taglio le mani. Mi conoscete».
Lo conoscevano. Lo conoscevano bene, e nessuno si mosse, malgrado gli ordini e le bestemmie degli ufficiali, che stavano bene attenti a non correre personalmente nessun rischio. Minacciandoli sempre con le due spade, Rumata si tirò in piedi sul davanzale. In quel momento una lancia che veniva dalla strada sottostante lo colpì alla schiena. L’impatto fu terribile. Anche se l’arma non riuscì a trapassare la corazza di metalloplast, lo fece però cadere dal davanzale, ributtandolo dentro la stanza, sul pavimento. Rumata tenne strette le due spade, ma in quella situazione non potevano essergli di nessun aiuto. La marmaglia si gettò subito su di lui. Tutti insieme dovevano pesare ben più di una tonnellata, ma s’intralciavano a vicenda, permettendogli così di rimettersi in piedi. Con un pugno colpì le labbra umide di qualcuno, un altro si contorceva come un coniglio ferito e Rumata continuava a tirare pugni in tutte le direzioni, a colpirli con i gomiti, le spalle (da molto tempo non si sentiva così agile). Ma non riusciva a respingerli. Trascinando dietro di sé una fila di corpi arrivò fino alla porta, dove finalmente si liberò degli uomini che gli avevano infilato le unghie nelle gambe. Poi sentì un colpo violento e doloroso nella schiena e cadde all’indietro. Alcuni Sturmovik cercavano di districarsi sotto di lui. Riuscì di nuovo a rimettersi in piedi, tirando brevi colpi che gettavano contro i muri i soldati che scalciavano disperatamente. Per un attimo vide il viso butterato del tenente sopra di sé, mentre si chinava sopra la sua balestra scarica, quando improvvisamente la porta cedette e nella stanza si riversò un’altra folla di visi sudati e ghignanti. Gli gettarono addosso una rete, gliela avvolsero intorno ai piedi e lo trascinarono per terra.
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