Arkadi Strugatzki - È difficile essere un dio

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La repressione impazza ad Arkanar, nel paesaggio si stagliano le forche.
Il Re ha messo al bando tutti gli intellettuali.
Gli studiosi inviati dal pianeta terra, ormai pacifico ed evoluto,  cercano di confondersi tra gli abitanti di Arkanar, studiano, osservano, trasmettono informazioni.
Intervenire? Creare forzatamente nuovi equilibri, nuove alleanze?
Funzionerebbe? Sarebbe giustificabile eticamente?
Com'è difficile essere un dio!

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Nel fatto che le «folle indignate» avessero distrutto tutte le botteghe dei rigattieri, gli unici luoghi in tutto il regno in cui fosse ancora possibile comprare o farsi prestare libri e manoscritti in tutte le lingue, anche quelle morte dei nativi che vivevano dall’altra parte del golfo. Nel fatto che il simbolo della città, la torre luminosa dell’Osservatorio, si ergesse nel cielo come un dente nero e cariato: era stata bruciata da «un’esplosione accidentale». Nel fatto che il consumo di alcol fosse quadruplicato in due anni. Nel fatto che i contadini vessati e terrorizzati si seppellissero nelle cantine dei loro tuguri e non osassero uscirne neppure per svolgere i più indispensabili lavori nei campi. E infine, nel fatto che quella vecchia poiana di Waga Koleso avesse trasferito in città il suo quartier generale. Evidentemente doveva aver fiutato qualche ricca possibilità di bottino.

Da qualche parte all’interno del palazzo, negli appartamenti lussuosi in cui risiedeva il Re gottoso, il Re che negli ultimi vent’anni non aveva visto la luce del sole per paura del mondo esterno, il Re minorato che firmava una sentenza dopo l’altra mandando a morte le persone più onorate e generose… da qualche parte s’ingrossava un terribile bubbone che minacciava di scoppiare da un momento all’altro.

Rumata incespicò nei resti di un melone spiaccicato e alzò lo sguardo. Era sul Viale della Gratitudine Inesprimibile, nel quartière dove si trovavano i negozi migliori, gli usurai e i gioiellieri. Ai lati della via si susseguivano case antiche, i marciapiedi erano ampi, la strada lastricata di granito. Di solito era frequentata dai gentiluomini e dai ricchi aristocratici della città, ma in quel momento avanzava verso di lui una folla compatta di povera gente. Cautamente si tennero tutti alla larga da Rumata. Qualcuno l’osservava con curiosità, molti si inchinavano profondamente a scanso di equivoci. Visi tondi e lustri si sporgevano dalle finestre dei piani alti come piccoli fari, emozionati e quasi paralizzati dalla curiosità. Più avanti si sentivano voci imperiose: «Ehi, laggiù! Muovetevi! Disperdetevi! Volete sbrigarvi? Forza!» La folla commentava: «State attenti a quelli là, sono i peggiori, sono posseduti dal diavolo. Sembrano persone perbene, tranquille, sembrano mercanti come tutti gli altri. Ma guardateli un po’ più da vicino: dentro hanno un veleno, un veleno amaro…» «Se lo è meritato, quel demonio… Io ci sono abituato, ma mi bruciano ancora gli occhi…» «Bruciateli, sì! Mi si apre il cuore: possiamo contare sui nostri ragazzi».

«Non è stato troppo crudele? Dopotutto è un essere umano, una creatura di carne e sangue… Se uno sbaglia, be’, bisogna punirlo, chiarirgli le idee, ma perché…» «Basta con queste sciocchezze! E parla piano, amico. Qui non sei solo, vuoi tenerlo a mente? La gente ti ascolta».

«Caro signore! È un materiale eccellente, un tessuto ottimo. Approfittatene, prima che rincari di nuovo… prima che gli agenti di Pakin arraffino tutto…» «E soprattutto, figliolo, non dubitare mai! Credi e basta, è la cosa più importante.

Una volta che le autorità intervengono, puoi essere certo che sanno quello che fanno…» «È successo un’altra volta. Hanno picchiato a sangue qualche poveraccio». Rumata avrebbe voluto allontanarsi, girare alla larga dalla folla che arrivava, dalle grida. Ma non si voltò. Invece tirò indietro i capelli per scoprire la pietra incastonata nel cerchietto d’oro che portava intorno alla fronte. In realtà non era una pietra, ma la lente di una telecamera, e il cerchietto non era un ornamento ma una ricetrasmittente.

Gli storici sulla Terra potevano vedere e sentire tutto quello che i duecentoquindici emissari vedevano e sentivano sui nove continenti del pianeta. E gli emissari erano obbligati a stare a sentire e a guardare.

A testa alta, tenne le due spade orizzontali ai lati del corpo per allontanare la gente il più possibile e cominciò a camminare in mezzo alla strada. I curiosi si spostarono subito per lasciarlo passare. Quattro servitori dalle labbra tumide e pesantemente truccate trasportavano una portantina lucidissima. Dietro le tendine si intravedeva un viso freddo e bellissimo, con gli occhi semichiusi. Rumata si tolse il cappello con uno svolazzo e fece un inchino. Era Donna Okana, la favorita attuale dell’Aquila Illuminata, Don Reba. Accorgendosi di lui, la donna gli sorrise. I suoi occhi erano promettenti, appassionati. Almeno due dozzine di gentiluomini avrebbero dato qualunque cosa per quel sorriso. Un sorriso così era raro, in quei giorni, e non si comprava con l’oro. Rumata si fermò un momento, seguendo la portantina con lo sguardo. «Devo prendere una decisione» pensò. «Devo decidermi, finalmente».

Rabbrividì al pensiero delle conseguenze. Ma doveva essere così!» Io devo… Adesso lo so, e poi non ho scelta, non c’è altro modo. Stanotte». Passò accanto alla bottega dell’armaiolo dove, quella mattina, aveva provato i pugnali e parlato di poesia. Si fermò. «Ecco di cosa si trattava. Questa volta è toccato a te, caro Padre Hauk…» La folla aveva già cominciato a disperdersi. La porta della bottega era stata scardinata, le vetrine infrante. Uno Sturmovik Grigio con l’aria da bullo era appoggiato allo stipite della porta, con le gambe incrociate. Un altro era acquattato contro il muro. Il vento spingeva dei fogli scritti e strappati lungo la via. Il bullo si mise un dito in bocca e lo succhiò per un po’, lo tirò fuori e l’esaminò con cura.

Sanguinava. Poi si accorse di Rumata che lo fissava e disse con una voce roca e compiaciuta: «Quell’animale mordeva come un ossesso».

Il secondo Sturmovik ridacchiò, pieno di zelo. Un ragazzino magro e pallido, insicuro e foruncoloso. Era ovviamente un novellino, un principiante. Un mostriciattolo, una piccola iena.

«Che succede qui?» chiese Rumata.

«Hanno scoperto un topo di biblioteca» disse nervosamente la piccola iena.

Il bullo si rimise il dito in bocca senza scomporsi.

«At-tenti!» ordinò Rumata.

La piccola iena scattò in piedi e prese l’ascia. Il bullo rifletté un attimo, poi si mise più o meno sull’attenti.

«Un topo di biblioteca? Di che tipo? Chi è?» s’informò Rumata.

«Chi lo sa?» rispose il più giovane. «Ordini di Padre Zupik…»

«L’hanno preso?»

«Certo che l’hanno preso».

«Magnifico» disse Rumata.

Tutto sommato non era un gran guaio. C’era ancora tempo. «Il tempo è la cosa più importante. Un’ora può costare una vita, un giorno è inestimabile».

«E dove l’avete portato? Nella Torre?»

«Eh?» chiese il ragazzo distrattamente.

«Ti sto chiedendo se adesso è nella Torre».

Sul viso foruncoloso comparve un sorriso incerto.

Il bullo rise sguaiatamente. Rumata si voltò. Sull’altro lato della strada il cadavere di Padre Hauk penzolava dall’architrave di una porta. Ciondolava come un sacco pieno di stracci. Qualche piccolo vagabondo lo stava a guardare a bocca aperta.

«Di questi tempi non li mandano tutti nella Torre» disse la voce rauca del bullo dietro di lui. «Oggi si va per le spicce. Una corda al collo e buonanotte».

La piccola iena riprese a ridacchiare. Rumata lo fulminò con lo sguardo e attraversò la strada. Il poeta triste aveva il viso annerito e irriconoscibile. Rumata abbassò gli occhi. Solo le sue mani avevano conservato l’aspetto familiare, le lunghe dita sottili macchiate d’inchiostro…

Oggi nessuno si avventura più nella vita Sei preso per il collo.

Qualcuno ha chiesto Un altra possibilità?

Deboli e goffe Le sue mani fiacche cederanno.

Chissà dov’è nascosto il cuore del polpo Chissà se ha un cuore…

Rumata si voltò e se ne andò. «Povero Padre Hauk…» «Il polpo ha un cuore. E sappiamo dov’è. Ed è questa la cosa più terribile, amico mio muto e abbandonato. Sappiamo dov’è, ma non possiamo distruggerlo senza spargere il sangue di migliaia di persone spaventate, corrotte, acritiche, cieche. E sono in tanti, disperatamente tanti: gente misera, senza speranza, indurita da un lavoro incessante privo di ricompensa. Esseri umani abbrutiti che ancora non sono in grado di elevarsi sopra l’ideale dei pochi spiccioli. Troppo, troppo presto, in anticipo di un secolo si è diffusa ad Arkanar la peste Grigia, senza incontrare resistenza.

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