Jean-Christophe Grangé - L'impero dei lupi

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Anna Heymes, moglie di un alto funzionario parigino, dopo un intervento di chirurgia estetica soffre di crisi di amnesia e di terribili allucinazioni. Alla ricerca della sua identità e del suo vero volto, incontra Paul, il giovane commissario che sta indagando sull’atroce omicidio di tre ragazze turche impiegate in un laboratorio clandestino. Paul ha chiesto l’aiuto di un poliziotto in pensione dal passato turbolento, Jean-Louis Schiffer, creando così una coppia eccentrica ma tenacissima.
Inizia così una vera e propria discesa agli inferi: un viaggio nei labirinti della mente dei protagonisti, ma anche in un mondo popolato da feroci assassini e trafficanti di immigrati
, oltre che da bande terroriste che vanno dai guerriglieri no-global ai Lupi grigi turchi.

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Lungo il viale principale, vide i depositi Matak, i suoi depositi, dove la frutta sarebbe stata immagazzinata a tonnellate, per essere trattata, conservata ed esportata. Non provò alcun piacere. Quelle ambizioni ordinarie non lo avevano mai interessato. Per contro, sentiva l’imminenza della montagna, la prossimità dei terrazzamenti…

Cinque chilometri più in là, lasciò la strada principale. Niente più asfalto, niente più cartelli indicatori. Solo una sterrata tagliata nella montagna che serpeggiava fino alle nuvole. In quel momento ritrovò la sua vera terra natale. I pendii di polvere color porpora, le erbe alte, le pecore grigie e nere che si spostavano appena al suo passaggio.

Oltrepassò il suo villaggio. Incrociò donne dal foulard ornato d’oro. Volti di cuoio rosso, cesellati come vassoi di rame. Creature selvagge, indurite dalla terra, maturate nella preghiera e nella tradizione, creature come sua madre. Tra quelle donne, c’erano forse delle persone della sua stessa famiglia…

Ancora più in alto, scorse dei pastori accucciati lungo la scarpata, avvolti in vesti troppo grandi. Si rivide, venticinque anni prima, seduto al loro posto. Si ricordava ancora di quel maglione che gli aveva servito da mantello, con le maniche troppo lunghe, dalle quali le sue mani spuntavano ogni anno un po’ di più. Le sue maglie erano state il solo calendario che aveva avuto.

Sentì le sue dita fremere di antiche sensazioni. Il contatto con il suo cranio rasato, quando si proteggeva dalle botte di suo padre. La dolcezza dei frutti secchi quando, tornando dai pascoli, lasciava che la sua mano sfiorasse la superficie dei grossi sacchi del droghiere. I malli di noce che raccoglieva d’autunno e che gli macchiavano il palmo per tutto l’inverno…

Penetrò nella cappa di nuvole.

Tutto divenne bianco, ovattato, umido. La strada cominciava a essere bordata di mucchi di neve. Una neve particolare, impregnata di sabbia, luminescente e rosa.

Prima di iniziare l’ultimo tratto, mise le catene. Avanzò sobbalzando ancora per un’ora. I cumuli di neve ammassati dal vento brillavano sempre di più e assumevano la forma di corpi languidi. L’ultima tappa verso la purezza.

«Ho accarezzato i pendii di neve,
spolverati di sabbia rosa,
gonfi come corpi di donna…»

Infine, individuò il parcheggio, ai piedi della roccia.

In alto, la montagna rimaneva invisibile, velata di nebbia.

Scese dall’auto e annusò l’aria. Il silenzio della neve pesava su quel luogo come un blocco di cristallo.

Si riempì i polmoni d’aria gelata. Era a più di duemila metri, doveva salirne altri trecento. In previsione dello sforzo, sgranocchiò del cioccolato, poi, con le mani in tasca, si mise in marcia.

Superò il capanno dei guardiani, che rimaneva chiuso fino a maggio, poi seguì le tracce di pietra che emergevano appena dalla neve. L’ascensione divenne difficile. Dovette fare una deviazione per evitare il tratto più scosceso del pendio. Avanzava di sbieco, appoggiando la sinistra alla parete e sforzandosi di non scivolare nel vuoto. La neve scricchiolava sotto i suoi passi.

Cominciava ad avere il fiato grosso. Arrivò alla prima terrazza, quella a est, ma non vi si attardò. Lì, le statue erano troppo erose. Si concesse solo qualche istante di riposo sull’«altare del fuoco»: una piattaforma di pietra, verde come il bronzo, che offriva una vista a centottanta gradi sui monti Tauri.

Il sole stava infine rendendo grazie al paesaggio. Al fondo della valle si distinguevano delle zone rosse, macchie gialle e bocche di smeraldo, vestigia delle fertili pianure sulle quali si fondava la prosperità dei regni antichi. La luce che si posava su quei crateri scavava delle pozze bianche, splendenti. Altrove, quella stessa luce sembrava intercettare la polvere e scomporre ogni dettaglio in miliardi di pagliuzze luccicanti. Il sole giocava con le nuvole e sulle montagne passavano ombre come espressioni su un volto.

Fu preso da un’emozione indicibile. Non riusciva a convincersi che quelle terre erano le «sue» terre, che apparteneva lui stesso a quella bellezza smisurata. Gli sembrava di vedere le antiche orde avanzare all’orizzonte, le orde dei primi turchi che avevano dato potenza e civiltà all’Anatolia.

Guardando meglio, vide che non si trattava né di uomini, né di cavalli, ma di lupi. Mute di lupi argentati che si confondevano con il riverbero della terra. Lupi divini, pronti a unirsi ai mortali per dare origine a una razza di guerrieri perfetti…

Continuo il cammino, in direzione del versante ovest. La neve si faceva più spessa e più leggera, vellutata. Guardò indietro le proprie orme e gli parvero come una scrittura misteriosa che serviva a tradurre quel silenzio. Infine, raggiunse la seconda terrazza, là dove si innalzavano i Volti di Pietra.

Erano cinque. Cinque teste colossali alte più di due metri. In origine erano appoggiate su corpi altrettanto colossali, in cima al tumulo che costituiva la tomba vera e propria, ma i terremoti le avevano abbattute. Gli uomini le avevano rialzate e ora esse sembravano aver acquistato forza dal suolo, pareva che gli stessi contrafforti delle montagne fossero diventati le loro spalle.

Al centro c’era Antioco I re di Commagene, che aveva voluto essere seppellito in mezzo a quegli dei meticci, greci e persiani al tempo stesso, frutto del sincretismo tra quelle civiltà perdute. Al suo fianco, c’era Zeus-Ahura Mazdah, il re degli dei, che si incarnava nel fulmine e nel fuoco. Dall’altra parte, Apollo-Mitra, che imponeva la santificazione degli uomini nel sangue dei tori. E poi Tyche, che con la sua corona di spighe e di frutti simboleggiava la fertilità del regno…

Malgrado la loro potenza, quei volti avevano espressioni giovanili: bocca a cuore, barba arricciata… E soprattutto i grandi occhi bianchi che sembravano sognare. Persino i guardiani del santuario, il Leone, re degli animali, e l’Aquila, signora dei cieli, avvolti in una coltre di neve, contribuivano all’idea di mansuetudine che emanava da quel corteo.

Non era ancora l’ora giusta: la foschia era troppo fitta perché il fenomeno avesse luogo. Strinse la sciarpa e si mise a pensare al sovrano che aveva fatto erigere quel sepolcro. Antioco Epifano I. Il suo regno era stato così prospero che si era sentito benedetto dagli dei, fino a considerarsi uno di loro e a farsi inumare in cima a quel monte sacro.

Anche Ismaïl Kudseyi si era creduto un dio, uno che ha diritto di vita e di morte sui propri sudditi. Ma aveva dimenticato la cosa principale: egli non era che uno strumento della causa, un anello nella catena del Touran. Ignorando quell’aspetto, lui aveva tradito sé stesso e i Lupi. Aveva macchiato le leggi di cui un tempo era stato il rappresentante. Era diventato un uomo degenerato, vulnerabile. Ecco perché Sema aveva potuto abbatterlo.

Sema. L’amarezza gli seccò improvvisamente la bocca. Era riuscito a eliminarla e tuttavia non aveva trionfato. Tutta quella caccia era stata un grande casino, un fallimento che aveva cercato di nascondere sacrificando la sua preda secondo le regole ancestrali. Aveva dedicato il suo cuore agli dei di pietra del Nemrut Daği, quegli dei che aveva da sempre onorato, scolpendo i loro lineamenti nelle carni delle sue vittime.

La nebbia si dissipò.

Si inginocchiò nella neve e attese.

Nel giro di qualche istante, la foschia si sarebbe alzata e avrebbe avvolto le teste giganti, portandole con sé nella sua leggerezza, muovendole del suo stesso movimento e dando loro la vita. I volti avrebbero perso di definizione e avrebbero preso a galleggiare sopra la neve. Allora sarebbe stato impossibile non pensare a una foresta. Impossibile non vederli avanzare… Antioco in testa, poi Tyche e gli altri Immortali al seguito, circondati, accarezzati, fumigati dai vapori del ghiaccio. Infine, in quel momento di sospensione, le loro bocche si sarebbero aperte e avrebbero lasciato sfuggire le parole.

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