E all’improvviso, il quadro era stato di nuovo sconvolto.
Sema era riapparsa.
E chiedeva un incontro.
Era ancora lei che conduceva la partita…
Contemplò un’ultima volta il suo riflesso nello specchio e, di colpo, scoprì un altro uomo. Una vecchia carcassa con le ossa taglienti come coltelli. Un predatore pietrificato, proprio come quello scheletro preistorico che avevano appena trovato in Pakistan…
Si infilò il pettine in tasca e tentò di sorridere alla propria immagine.
Ebbe l’impressione di salutare un teschio dalle orbite vuote.
Si diresse verso la scala e ordinò alle guardie:
« Geldiler. Beni yalniz birakin. » Loro sono là. Lasciatemi solo.
La stanza che lui chiamava «sala di meditazione» era uno spazio di centoventi metri quadri, senza separazioni, con un parquet di legno grezzo. Avrebbe potuto benissimo chiamarla «sala del trono». Su una pedana rialzata c’era un divano color guscio d’uovo, coperto con cuscini trapunti d’oro. Di fronte, un tavolino. Alcune lampade proiettavano archi di luce fioca sulle pareti bianche lungo le quali erano allineati bauli di legno lavorato, come tante ombre solide, come segreti incrostati di madreperla. Nient’altro.
Kudseyi amava quel locale spoglio, quel vuoto quasi mistico che sembrava pronto a ricevere le preghiere di un sufi.
Attraversò la sala, salì i tre scalini della pedana e si avvicinò al tavolino. Posò il bastone e prese la sua solita caraffa piena di ayran , una specie di frappé fatto con acqua, yogurt e sale. Se ne versò un bicchiere e lo bevve in un colpo, assaporando il senso di freschezza che si diffondeva nel suo corpo. Poi si mise ad ammirare il suo tesoro.
Ismaïl Kudseyi possedeva una delle più belle collezioni di kilim di tutta la Turchia, ma il vero capolavoro era conservato lì, appeso sopra il divano.
Quell’antico tappeto, di un metro quadro appena, bruciava d’un rosso scuro, bordato di giallo, del colore dell’oro, del grano e del pane cotto. Al centro si stagliava un rettangolo tra il blu e il nero, la tinta sacra che evocava il cielo e l’infinito. All’interno, una grande croce ornata con corna di ariete, simbolo di virilità e di virtù guerresca. Al di sopra, come a proteggere e coronare la croce, un’aquila con le ali aperte. Lungo il bordo si distingueva l’albero della vita e poi il papavero, fiore della gioia e della felicità, l’hashish, pianta magica del sonno eterno…
Kudseyi avrebbe potuto passare ore a contemplare quel capolavoro che sembrava riassumere il suo intero universo di guerra, di droga e di potere. E poi, amava quel mistero che si celava in filigrana, quell’enigma di lana che l’aveva da sempre affascinato. Ancora una volta si pose quella domanda: «Dov’è il triangolo? Dov’è la buona sorte?»
Come prima cosa ammirò la sua metamorfosi.
La ragazza grassottella era diventata una bruna longilinea, una giovane moderna: seno piccolo e fianchi stretti. Indossava un cappotto nero trapuntato, un paio di pantaloni anch’essi neri e degli stivaletti a punta quadra. Una vera parigina.
Ma soprattutto, era affascinato dalla trasformazione del volto.
Quante operazioni, quante ferite erano state necessarie per ottenere un simile risultato? Quel viso irriconoscibile gli gridava la sua rabbiosa voglia di scappare, di sfuggire al proprio destino. Una voglia che si leggeva in fondo ai suoi occhi blu scuri che spuntavano appena da sotto le palpebre pigre e che respingevano l’interlocutore come un intruso, come una presenza spiacevole. Sì, malgrado quei lineamenti trasformati, in quegli occhi riconosceva la durezza primitiva del suo popolo nomade, un’energia feroce, nata dai venti e dal bruciare del sole.
Di colpo, si sentì vecchio. E finito.
Una mummia bruciata, con le labbra di polvere.
Seduto sul divano, la lasciò avanzare. Lei era stata perquisita. I suoi vestiti erano stati controllati, palpati, analizzati, persino il suo corpo era stato passato ai raggi X. Ora, ai suoi fianchi stavano due guardie del corpo, con l’MP-7 in pugno, la sicura tolta, il colpo in canna. Azer era rimasto indietro, anche lui armato.
Tuttavia, Kudseyi provava un’apprensione confusa. Il suo istinto di guerriero gli suggeriva che, malgrado la sua apparente vulnerabilità, quella donna era pericolosa. Avvertiva un senso di nausea. Che cosa aveva in testa Sema? Perché gli si era consegnata?
Lei contemplava il kilim appeso al muro. Decise di parlarle in francese, per dare un tono più solenne all’incontro:
«È uno dei più antichi tappeti del mondo. L’hanno scoperto degli archeologi russi dentro un blocco di ghiaccio, al confine tra la Siberia e la Mongolia. Sicuramente ha almeno duemila anni. Si pensa che sia un manufatto unno. La croce. L’aquila. Le corna d’ariete. Tutti simboli virili. Doveva trovarsi nella tenda di un capo clan.»
Sema rimase muta. Uno spillo di silenzio.
«Un tappeto da uomo», insistette, «che però, come tutti i kilim dell’Asia centrale, è stato tessuto da una donna.»
Fece una pausa, poi riprese:
«Penso spesso alla donna che lo ha fabbricato: una madre, esclusa dal mondo dei guerrieri, che però ha saputo imporre la sua presenza persino nella tenda del Khan.»
Sema era immobile. Le guardie le erano sempre più vicine.
«A quell’epoca, la tessitrice nascondeva sempre un triangolo tra gli altri motivi ornamentali, serviva a proteggere il suo tappeto dal malocchio. Mi piace quest’idea: una donna tesse pazientemente un quadro virile, pieno di motivi guerreschi, ma da qualche parte nasconde un segno materno. Sei in grado di trovare il triangolo portafortuna in questo kilim?»
Nessuna risposta, nessun movimento da parte di Sema.
Prese la caraffa all’ ayran , riempì lentamente il bicchiere, e ancora più lentamente bevve.
«Non lo vedi?» domandò di nuovo. «Non ha importanza. Questa storia mi ricorda la tua, Sema. Una donna rinchiusa in un mondo di uomini che nasconde un oggetto che interessa a tutti. Un oggetto fatto per portare fortuna e prosperità.»
Su quelle ultime sillabe, la voce si spense, ma poi tornò a esplodere con violenza:
«Dov’è il triangolo, Sema? Dov’è la droga?»
Nessuna reazione. Le parole scivolavano su di lei, come gocce di pioggia. Non era neanche sicuro che lo stesse ascoltando. Ma all’improvviso, lei rispose:
«Non lo so.»
Lui tornò a sorridere: Sema voleva negoziare.
«In Francia sono stata arrestata. La polizia mi ha fatto subire un condizionamento psichico. Un lavaggio del cervello», riprese Sema. «Non mi ricordo del mio passato. Non so dove sia la droga. Non so neppure chi sono.»
Kudseyi cercò Azer con lo sguardo: anche lui sembrava stupefatto.
«E pensi che io possa credere a una storia così assurda?»
«È stato un lungo trattamento», proseguì lei con il suo tono calmo. «Una suggestione attuata per mezzo di un prodotto radioattivo. Quasi tutti quelli che hanno partecipato all’esperimento sono stati uccisi o arrestati. Potete verificarlo, è tutto scritto sui giornali francesi di ieri e del giorno prima.»
Kudseyi girava intorno alla questione con molta diffidenza.
«La polizia ha recuperato l’eroina?»
«Non sapevano neppure che c’era in ballo un carico di droga.»
«Cosa?»
«Non sapevano chi ero. Hanno scelto me perché mi hanno trovata in stato di choc nell’hammam di Gurdilek, dopo l’incursione di Azer. Hanno cancellato completamente la mia memoria, senza scoprire il mio segreto.»
«Ti ricordi parecchie cose per essere una a cui hanno tolto la memoria.»
«Ho indagato.»
«Come fai a conoscere il nome di Azer?»
Sema abbozzò un sorriso, breve come lo scatto di una macchina fotografica.
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