Jean-Christophe Grangé - L'impero dei lupi

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Anna Heymes, moglie di un alto funzionario parigino, dopo un intervento di chirurgia estetica soffre di crisi di amnesia e di terribili allucinazioni. Alla ricerca della sua identità e del suo vero volto, incontra Paul, il giovane commissario che sta indagando sull’atroce omicidio di tre ragazze turche impiegate in un laboratorio clandestino. Paul ha chiesto l’aiuto di un poliziotto in pensione dal passato turbolento, Jean-Louis Schiffer, creando così una coppia eccentrica ma tenacissima.
Inizia così una vera e propria discesa agli inferi: un viaggio nei labirinti della mente dei protagonisti, ma anche in un mondo popolato da feroci assassini e trafficanti di immigrati
, oltre che da bande terroriste che vanno dai guerriglieri no-global ai Lupi grigi turchi.

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Pagheranno tutto. Le cinque e un quarto.

Il freddo diventa una morsa, quasi una bruciatura. Sema si alza, batte i piedi e le braccia per lottare contro l’intorpidimento. Il ricordo dell’operazione la riporta immediatamente alla sua ultima scoperta, quella che ha fatto qualche ora prima all’ospedale centrale di Istanbul. In realtà, più che una scoperta è stata una conferma. Adesso si ricorda con precisione quel giorno del marzo 1999, a Londra. Un banale problema di colite l’aveva obbligata a effettuare una radiografia e ad accettare la verità.

Come avevano potuto farle quello?

Come avevano potuto mutilarla per sempre?

Ecco perché è fuggita.

Ecco perché li ammazzerà tutti.

Le cinque e mezza.

Il freddo le penetra nelle ossa. Il sangue affluisce verso gli organi vitali, abbandonando a poco a poco le estremità al gelo e alla morte bianca. Tra qualche minuto sarà paralizzata.

Meccanicamente, avanza fino alla porta. Esce dal faro e si sforza di sgranchire le gambe camminando sulla diga. La sua sola fonte di calore è il suo stesso sangue: deve farlo circolare, deve ripartirlo tra le varie parti del suo corpo…

Lontano risuonano delle voci. Sema alza gli occhi. Alcuni pescatori salgono sulla prima diga. Non era previsto. Almeno non così presto.

Nell’oscurità scorge le loro canne e le lenze che sferzano la superficie dell’acqua.

Sono veramente dei pescatori?

Guarda l’orologio: le sei meno un quarto.

Ancora qualche minuto e poi se ne andrà. Non può concedere più tempo ad Azer Akarsa. Lei sa che, da qualsiasi punto di Istanbul, non serve più di mezz’ora per raggiungere la stazione. Se l’altro ci impiega di più è perché sta organizzando una trappola.

Uno sciabordio. Nel buio, si apre sull’acqua la scia di una barca. La scialuppa supera la prima diga. Una figura si china sui remi. Movimenti ampi, lenti, costanti. Un raggio di luna sfiora le spalle di velluto.

Infine, la barca tocca gli scogli.

Si alza, prende una cima. I gesti e i rumori sono così ordinari da sembrare irreali. Sema quasi non riesce a credere che l’uomo che vive solo per la sua morte è lì, a due metri da lei. Malgrado l’oscurità, distingue la sua giacca di velluto consunto, la sua grossa sciarpa, i suoi capelli… Quando si sporge per lanciarle la corda, per una frazione di secondo, arriva a scorgere il riflesso violetto dei suoi occhi.

Lei prende la cima e la annoda a quella della sua stessa barca. Azer fa per scendere, ma Sema lo ferma brandendo la Glock.

«I teloni», gli dice.

Lui getta un’occhiata ai vecchi teli di plastica ammucchiati nella barca.

«Sollevali.»

Esegue: il fondo è vuoto.

«Avvicinati. Molto lentamente.»

Lei indietreggia, per lasciarlo salire sulla diga. Con un gesto gli impone di alzare le braccia. Lo perquisisce con la sinistra: niente armi.

«Io le rispetto, le regole», borbotta lui.

Lei lo spinge verso la porta e lo segue a due passi. Quando entra, lui è già seduto su uno scalino.

Tra le sue mani spunta un sacchetto trasparente:

«Vuoi un cioccolatino?»

Sema non risponde. Lui ne prende uno e se lo porta alla bocca.

«Diabete», dice quasi scusandosi. «L’insulina mi provoca dei cali di zucchero nel sangue. Non si riesce a trovare il giusto dosaggio. Ho spesso delle crisi di ipoglicemia, che diventano più gravi in caso di forti emozioni. Allora ho bisogno di zuccheri rapidamente disponibili.»

La carta trasparente brilla tra le sue dita. Sema pensa alla Maison du Chocolat, a Parigi, a Clothilde. Un altro mondo.

«A Istanbul prendo sempre delle paste a base di mandorle ricoperte di cioccolato. A Parigi ho trovato gli jikola… »

Posa con delicatezza il sacchetto sulla struttura di ferro. Simulata o reale che sia, la sua disinvoltura è impressionante. Il faro si riempie lentamente di piombo blu. Il giorno sta per spuntare, anche se il perno, in alto sulla torre, non cessa di gemere.

«Senza quei cioccolatini non ti avrei mai ritrovata.»

«Tu non mi hai trovata.»

Sorriso. Infila di nuovo la mano sotto la giacca. Sema brandisce la pistola. Azer rallenta il proprio gesto, poi tira fuori una foto in bianco e nero. Una semplice istantanea: un gruppo di studenti in un campus.

«Università di Bogazici, aprile 1993. La tua sola foto esistente. Con il vecchio viso, intendo…»

All’improvviso, tra le sue dita compare un accendino. La fiamma buca l’oscurità, poi morde lentamente la carta emanando un forte odore chimico.

«Sono rari quelli che possono vantarsi di averti incontrata dopo quel periodo, Sema. Senza contare che cambiavi continuamente nome, aspetto, paese…»

Continua a tenere la foto crepitante tra le dita. Sul suo volto passano fiamme d’un rosa scintillante. A lei sembra di vedere una delle sue allucinazioni. Forse l’inizio di una crisi… Ma no: semplicemente, il viso dell’assassino si beve il fuoco.

«Un vero mistero», riprende lui. «In un certo senso, è questo che è costato la vita ad altre tre donne.»

Contempla la fiamma che ha tra le mani.

«Si sono contorte nel dolore. A lungo. Molto a lungo…»

Infine lascia cadere la foto in una pozzanghera:

«Avrei dovuto pensarci prima a un intervento chirurgico. Era nel tuo stile. L’ultima metamorfosi…»

Fissa la pozzanghera nera, ancora fumante:

«Siamo i migliori, Sema. Ognuno nel proprio campo. Cosa proponi?»

Lei capisce che quell’uomo non la considera una nemica, ma una rivale; o meglio, come un suo doppio. Per lui quella caccia è molto più di un semplice contratto. È una sfida. Un attraversare lo specchio… E allora lei lo provoca:

«Siamo solo degli strumenti, dei giocattoli nelle mani dei baba. »

Azer aggrotta le sopracciglia. Il suo viso si contrae.

«Al contrario. Io mi servo di loro per portare avanti la nostra causa. Il loro denaro…»

«Noi siamo i loro schiavi.»

La sua voce si colora di una sfumatura di irritazione:

«Cos’è che stai cercando?»

D’un tratto si mette a urlare, sbattendo a terra i cioccolatini:

«Che cosa proponi?»

«A te niente. Ne voglio parlare solo con Dio in persona.»

DODICI

73.

Ismaïl Kudseyi era fermo sotto la pioggia, nel parco della sua tenuta di Yeniköy.

In piedi tra le rose, sul bordo della terrazza, guardava fissamente lo stretto.

La riva asiatica si stagliava lontana, come un piccolo nastro battuto dalla tempesta. Era a più di mille metri di distanza e non si vedevano imbarcazioni di nessun tipo. Fuori dalla portata di un possibile cecchino, il vecchio si sentiva sicuro.

Dopo la chiamata di Azer, aveva sentito il desiderio di andare lì, di immergersi nel verde. Un bisogno imperioso, quasi fisico.

Appoggiandosi al bastone, seguì il parapetto e scese con cautela gli scalini che arrivavano fino all’acqua. L’odore del mare gli salì alle narici, mentre gli spruzzi gli bagnavano il volto: il Bosforo era agitato.

Ogni volta che aveva bisogno di riflettere, Kudseyi, malgrado i suoi settantaquattro anni, tornava lì, nei luoghi della sua infanzia. Lì aveva imparato a nuotare. Lì aveva pescato i suoi primi pesci e aveva perso i suoi primi palloni fatti di stracci annodati che, giunti in acqua, perdevano, una per una, le pezze, come i bendaggi di un’infanzia mai conclusa…

Il vecchio guardò l’orologio: le nove. Cosa stavano facendo?

Risalì la scala e contemplò il suo regno, i giardini della sua tenuta. Lungo il muro di cinta, rosso cremisi, che isolava il parco dal traffico di fuori, i bambù si piegavano come piume, in un dolce agitarsi a ogni soffio di vento. Più in là, sulle scalinate del palazzo, c’erano i leoni di pietra dalle ali ripiegate e, ancora oltre, i grandi laghetti con i cigni.

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