Sono anni che organizza con lui tutte le sue operazioni. È lui che, nel suo ultimo viaggio, ha ridotto l’eroina in soluzione liquida. Un’idea di Sema: iniettare la droga nelle bolle di plastica delle buste imbottite. Con cento millilitri per ogni busta, bastavano dieci plichi per spedire un chilo; duecento per l’intero carico. Venti chili di eroina in soluzione liquida nascosti nell’imbottitura traslucida di semplici buste a sacco da recuperare nella zona merci di Roissy.
Osserva ancora la foto: quell’adolescente grasso e riccioluto non è solo un fantasma del passato. Ora deve giocare un ruolo cruciale.
Solo lui può aiutarla a ritrovare Azer Akarsa.
Un’ora più tardi Sema attraversa in taxi l’immenso ponte d’acciaio che scavalca il Bosforo. È in quel momento che scoppia il temporale. Nel giro di qualche secondo, mentre l’auto raggiunge la riva asiatica, la pioggia si mette a cadere con violenza. Da prima, a colpire i marciapiedi sono solo degli spilli di luce, poi delle vere secchiate, che si allargano, crepitando come se piombassero su tetti di lamiera. Il paesaggio diventa pesante. Al passaggio delle auto si alzano schizzi scuri; le strade sprofondano, annegano…
Quando il taxi arriva nel quartiere di Beylerbeyi, addossato alla base del ponte, il temporale si è trasformato in tempesta. Un’onda grigia annulla la visibilità, e mescola automobili, marciapiedi e case in un’unica nebbia in movimento. L’intero quartiere sembra regredire allo stato liquido, in una preistoria di torba e di fango.
In via Yaliboyu Sema decide di scendere dal taxi. Si infila tra le macchine e si rifugia sotto una pensilina davanti ai negozi. Compra una cerata, un poncho verde, leggero, poi cerca di orientarsi. Quel quartiere assomiglia a un villaggio, a un modello miniaturizzato di Istanbul, una versione tascabile. Marciapiedi stretti come nastri, case ammassate, vicoli che sembrano sentieri e che scendono verso la riva.
Prende la strada principale, in direzione dello stretto. A sinistra, botteghe chiuse, chioschi trincerati sotto la loro tettoia, bancarelle coperte con teloni. A destra, un muro che nasconde i giardini di una moschea. Una superficie di ciottoli rossi, intagliata da fessure che disegnano una geografia malinconica. In fondo, dietro il fogliame grigio, ci sono le acque del Bosforo che risuonano come timpani nella fossa di un’orchestra.
Sema si sente conquistata dall’elemento liquido. Le gocce le rimbalzano sulla testa, le battono sulle spalle, scorrono lungo la cerata… Le sue labbra prendono un sapore d’argilla. Il suo stesso viso sembra divenire fluido, mobile, luccicante…
Sulla riva, la tempesta raddoppia d’intensità, come se fosse stata liberata da quell’apertura sul mare. La banchina sembra volersi staccare e seguire l’acqua. Sema non può impedirsi di vibrare, di sentire nelle proprie vene, divenute fiumi, quei frammenti di continente che oscillano sulle loro basi.
Sema torna sui suoi passi e cerca l’entrata della moschea. Segue un muro scrostato, interrotto, di tanto in tanto, da cancelli arrugginiti. Sopra di lei, le cupole rilucono e i minareti svettano tra le gocce.
Man mano che avanza, affluiscono nuovi ricordi. Kürsat lo chiamano «il Giardiniere» per la sua passione per la botanica, specialità papaveri. È qui, nascosto in questi giardini, che coltiva le sue specie rare. Ogni sera, viene a Beylerbeyi per controllare le piantine…
Superato il cancello, entra in un cortile lastricato in marmo, nel quale si allineano, all’altezza del suolo, degli acquai destinati alle abluzioni che precedono la preghiera. Attraversa il patio, scorge un gruppo di gatti bianchi e miele che stanno raggomitolati; a uno di essi è stato cavato un occhio, un altro ha il muso incrostato di sangue.
Ancora una soglia, poi, infine, il giardino.
Quella visione le fa venire un tuffo al cuore. Alberi, arbusti, rovi. Rami neri come bastoncini di liquirizia, boschetti pieni di foglie, fitti come cespugli di vischio.
Sema avanza, inebriata dal profumo dei fiori, dagli odori della terra. Il martellamento della pioggia qui è più delicato. Le gocce rimbalzano sulle foglie con un suono di pizzicato, le scariche d’acqua colpiscono le fronde come se toccassero corde d’arpa. Sema pensa: «Il corpo risponde alla musica con la danza. La terra risponde alla pioggia con in suoi giardini.»
Spostando i rami, trova un grande orto, nascosto sotto gli alberi. Tutori di bambù, bidoni pieni di humus, vasi di vetro capovolti per proteggere i germogli. A Sema sembra una serra a cielo aperto. Meglio ancora: un asilo infantile per vegetali. Fa ancora qualche passo, poi si ferma: il Giardiniere è là.
Si sta chinando su una fila di papaveri protetti da buste di plastica trasparente. Sta infilando un drenaggio all’interno di un pistillo, là dove c’è la capsula dell’alcaloide. Sema non riconosce la specie che l’altro sta maneggiando. Senza dubbio si tratta di un nuovo ibrido, in anticipo sulla stagione della fioritura. Un papavero sperimentale, nel bel mezzo della capitale turca…
Come se avesse avvertito la sua presenza, il chimico alza gli occhi. Il cappuccio gli sbarra la fronte, scoprendo appena i suoi lineamenti pesanti. Sulle sue labbra nasce un sorriso:
«Gli occhi. Ti ho riconosciuta dagli occhi.»
Le ha parlato in francese. Come un tempo, quando era un gioco, un segno di complicità. Lei non risponde. Immagina come la vede lui: un profilo scheletrico, sotto un cappuccio verde tè, il volto emaciato, irriconoscibile. Tuttavia, Kürsat non mostra alcuno stupore: egli è dunque a conoscenza della sua trasformazione. Lo aveva avvisato lei? Ha solo qualche secondo per decidersi. Quell’uomo era il suo confidente, il suo complice. È stata dunque lei a rivelargli i dettagli della sua fuga.
I suoi gesti sono maldestri, insicuri. È di poco più alto di Sema. Sotto il grembiule di plastica porta un camice di tela. Kürsat Milihit si alza.
«Perché sei tornata?»
Lei non dice nulla. Lascia che la pioggia scandisca il passare dei secondi. Poi, con la voce smorzata dalla cerata, gli risponde:
«Voglio sapere chi sono. Ho perso la memoria.»
«Cosa?»
«A Parigi sono stata arrestata dalla polizia. Ho subito un condizionamento mentale. Soffro di amnesia.»
«Non è possibile.»
«Tutto è possibile nel nostro mondo; lo sai meglio di me.»
«Tu… tu non ti ricordi di niente?»
«Quello che so, l’ho appreso indagando.»
«Ma perché tornare? Perché non sparire?»
«È troppo tardi per sparire. Ho i Lupi alle calcagna. Conoscono la mia nuova faccia. Voglio negoziare.»
Lui posa con cautela il fiore incappucciato nella plastica, poi, lanciandole un’occhiata furtiva, le chiede:
«Ce l’hai ancora?»
Sema non risponde. Kürsat insiste:
«La droga, ce l’hai ancora?»
«La questione non è la droga: la questione sono io», replica lei. «Chi era il mittente?»
«Noi non sappiamo mai il suo nome. È la regola.»
«Non ci sono più regole. La mia fuga ha sconvolto tutto. Immagino che siano venuti a interrogarti. Saranno circolati dei nomi. Chi ha ordinato l’invio?»
Kürsat esita. La pioggia batte sul suo cappuccio e cola sul suo viso.
«Ismaïl Kudseyi.»
Quel nome risveglia la sua memoria: Kudseyi, il capo assoluto. Ma simula ancora l’amnesia:
«Chi è?»
«Non riesco a credere che tu abbia perso la bussola fino a questo punto.»
«Chi è?» ripete.
«È il baba più importante di Istanbul.»
Abbassa il tono, come per accordarsi con la pioggia.
«Stava preparando un’alleanza con gli uzbeki e i russi. Il carico era un invio d’assaggio. Un test. Un simbolo. Scomparso con te.»
Lei sorride, nel cristallo delle gocce.
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