Jean-Christophe Grangé - L'impero dei lupi

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Anna Heymes, moglie di un alto funzionario parigino, dopo un intervento di chirurgia estetica soffre di crisi di amnesia e di terribili allucinazioni. Alla ricerca della sua identità e del suo vero volto, incontra Paul, il giovane commissario che sta indagando sull’atroce omicidio di tre ragazze turche impiegate in un laboratorio clandestino. Paul ha chiesto l’aiuto di un poliziotto in pensione dal passato turbolento, Jean-Louis Schiffer, creando così una coppia eccentrica ma tenacissima.
Inizia così una vera e propria discesa agli inferi: un viaggio nei labirinti della mente dei protagonisti, ma anche in un mondo popolato da feroci assassini e trafficanti di immigrati
, oltre che da bande terroriste che vanno dai guerriglieri no-global ai Lupi grigi turchi.

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Attraverso il finestrino, osserva ogni dettaglio: il rosso della bandiera turca, con la mezzaluna e la stella d’oro, che marchia la città come un sigillo di ceralacca. Il blu dei muri e dei monumenti di pietra, annerito, striato dall’inquinamento. Il verde dei tetti e delle cupole delle moschee, che nella luce oscilla tra giada e smeraldo.

Il taxi costeggia un muro lungo la Hatun caddesi. Sema legge i nomi su alcuni cartelli indicatori: Aksaray, Küçükpazar, Carsamba… Risuonano dentro di lei in modo vago, senza suscitare emozioni particolari o ricordi precisi.

E tuttavia, più che mai, sente che potrebbe bastare un niente, un monumento, un’insegna, il nome di una via, per rimescolare quelle sabbie mobili, per liberare i blocchi di memoria che giacciono in lei. Come quei relitti adagiati sul fondo che risalgono verso la superficie non appena vengono sfiorati da qualcosa o da qualcuno…

Il conducente chiede:

« Devam edelim mi? ». Continuiamo?

« Evet. » Sì.

Haseki. Nisanca. Yeni Kapi…

Un’altra sigaretta.

Rumore di traffico, ondate di passanti. L’agitazione urbana è al culmine. Ma quello che prevale è una grande impressione di dolcezza. La primavera fa tremolare le sue ombre al di sopra del tumulto. Nell’aria risplende una luce pallida. Su Istanbul si posa un velo argentato, una sorta di patina grigia che sopisce ogni violenza. Persino gli alberi danno un’idea di calma che si spande e pacifica gli animi.

All’improvviso, una parola scritta su un pannello pubblicitario attira la sua attenzione. Poche parole su fondo rosso e oro.

«Mi porti a Galatasaray», ordina al taxista.

«Al liceo?»

«Sì, al liceo. A Beyoglu.»

69.

Una grande piazza, ai confini del quartiere di Taksim. Banche, bandiere, hotel internazionali. Il taxista parcheggia all’entrata di un viale pedonale.

«Avrebbe fatto più in fretta a piedi», le spiega. «Prenda l’Istiklâl caddesi. Dopo un centinaio di metri…»

«Conosco il posto, grazie.»

Tre minuti più tardi, Sema raggiunge i grandi cancelli del liceo che proteggono gelosamente dei giardini oscuri. Supera il portone e si immerge in un’autentica foresta. Pini, cipressi, platani d’Oriente, tigli: mille sfumature d’ombra… Qualche corteccia arrischia un tono di grigio o di nero. Altrove, un tronco o un ramo si fendono con un intaglio chiaro, una specie di grande sorriso pastello. O ancora, un boschetto disseccato che offre trasparenze bluastre. L’intera gamma dei colori vegetali è dispiegata nel parco.

Oltre gli alberi, scorge le facciate gialle, attorniate da campi sportivi: gli edifici del liceo. Sema resta in disparte e osserva. I muri color polline. I pavimenti di cemento. La sigla del liceo, una S incassata in una G, ricamata sul gilet blu marine degli studenti che passeggiano.

Ma soprattutto, ascolta il baccano che si leva nell’aria. Un rumore che è uguale a ogni latitudine: la gioia dei ragazzi liberi dalla scuola. È mezzogiorno, l’ora di uscita.

Più che un rumore familiare è un richiamo, un segno di riunificazione. Di colpo, le molteplici sensazioni la avvolgono… Soffocata dall’emozione, si siede su una panca e lascia che tornino le immagini del passato.

Da prima il suo villaggio, nel profondo dell’Anatolia. Sotto un cielo senza limiti e senza pietà: capanne di fango aggrappate ai fianchi della montagna. Pianori d’erba alta. Pecore che camminano oblique lungo pendii scoscesi, grigie come carta sporca. Più in là, nella valle, uomini, donne e bambini che vivono come pietre, spezzati dal sole e dal freddo…

Poi il campo di assestamento: uno stabilimento termale in disuso, circondato da filo spinato, da qualche parte nella regione di Kayseri. Una quotidianità fatta di indottrinamento, di formazione, di esercizi. Le mattinate passate a leggere Le nuove luci di Alpaslan Türkes, a ripetere senza sosta i precetti nazionalisti, a vedere film muti sulla storia turca. Ore e ore di iniziazione alla balistica, di spiegazioni sugli esplosivi detonanti e quelli deflagranti, di tiro col fucile d’assalto e di allenamento con le armi bianche…

Poi, d’un tratto, il liceo francese. E tutto cambia. Un ambiente piacevole e raffinato. Ma forse è ancora peggio. Là, lei è la contadina. La ragazzina delle montagne in mezzo ai giovani di buona famiglia. Ma è anche la fanatica. La nazionalista attaccata alla propria identità turca, persa tra gli studenti borghesi di sinistra che sognano solo di diventare europei…

È lì, a Galatasaray, che lei si appassiona al francese fino al punto di sostituirlo, nella mente, alla sua madrelingua. Le sembra ancora di sentire il dialetto della sua infanzia, le sillabe dure e nude soppiantate, a poco a poco, da quelle parole nuove. Le sembra di risentire quelle poesie e quei libri che vengono a infilarsi in ogni suo ragionamento, a colorare ogni nuova idea. Era stato in quel momento che per lei il mondo era diventato francese.

Poi il periodo dei viaggi. L’oppio. Le coltivazioni iraniane, terrazzate al di sopra della stretta del deserto. Le pianure afgane, come scacchiere, dove si alternavano il papavero e il grano. Rivede frontiere senza nome, senza linee definite. No man’s lands fatte di polvere, tappezzate di mine, popolate di contrabbandieri feroci. Si ricorda le guerre. I carri armati, gli Stinger; e i ribelli afgani che giocano a buskachi con la testa di un soldato sovietico.

E rivede i laboratori. Baraccamenti dove l’aria è irrespirabile; pieni di uomini e donne con la mascherina di tela. Polvere bianca e fumi acidi, morfina base ed eroina raffinata… Il vero inizio del mestiere.

È allora che il viso diventa chiaro, preciso.

Fino a quel momento, la sua memoria ha funzionato in una sola direzione. Le facce hanno svolto la funzione di detonatore. Il volto di Schiffer è servito a ricordarle i suoi ultimi mesi d’attività: la droga, la fuga, il nascondiglio. Il semplice sorriso di Azer Akarsa ha fatto risorgere in lei il ricordo delle riunioni nazionaliste, degli uomini che levavano il pugno con l’indice e il mignolo alzati, ululando o gridando « Türkes basbug! », il ricordo della sua identità di Lupa.

Ma ora, nei giardini di Galatasaray, si verifica il fenomeno opposto. I suoi ricordi rivelano la fisionomia di un personaggio che attraversa ogni frammento della sua memoria… Da prima un bambino goffo. Poi, al liceo francese, un adolescente maldestro. Più tardi ancora, un compagno di traffici. A sorriderle, dall’interno dei laboratori clandestini, vestita d’un camice bianco, è sempre la stessa figura grassottella.

Negli anni, un bambino è cresciuto assieme a lei. Un fratello di sangue. Un Lupo grigio che con lei ha condiviso tutto. Ora che si concentra, il suo viso diventa più netto. Lineamenti paffuti sotto riccioli color miele. Occhi blu, come turchesi posati in mezzo ai ciottoli del deserto.

Improvvisamente emerge un nome: Kürsat Milihit.

Si alza e decide di entrare nel liceo: le serve una conferma.

Sema si presenta al direttore dicendo di essere una giornalista francese e spiega il tema del suo reportage: gli ex allievi di Galatasaray diventati celebri in Turchia.

Sorriso d’orgoglio del direttore: niente di più normale.

Qualche minuto dopo, si ritrova in una stanzetta tappezzata di libri. Davanti a lei ci sono i dossier dei diplomati degli ultimi decenni: nomi e fotografie degli studenti, date e voti di ogni annata. Senza esitare apre il dossier del 1988 e si ferma sul registro della classe che è all’ultimo anno, la sua classe. Non cerca il suo volto, la sola idea di vederlo la fa sentire male. No, cerca la foto di Kürsat Milihit.

Non appena la trova, i suoi ricordi diventano ancora più chiari. L’amico d’infanzia. Il compagno di strada. Kürsat è diventato un chimico. Il migliore nel suo campo. Capace di trasformare qualsiasi gomma base, di produrre la migliore morfina, di distillare l’eroina più pura. Dita magiche che sanno manipolare meglio di chiunque altro l’anidride acetica.

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