Jean-Christophe Grangé - L'impero dei lupi

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Anna Heymes, moglie di un alto funzionario parigino, dopo un intervento di chirurgia estetica soffre di crisi di amnesia e di terribili allucinazioni. Alla ricerca della sua identità e del suo vero volto, incontra Paul, il giovane commissario che sta indagando sull’atroce omicidio di tre ragazze turche impiegate in un laboratorio clandestino. Paul ha chiesto l’aiuto di un poliziotto in pensione dal passato turbolento, Jean-Louis Schiffer, creando così una coppia eccentrica ma tenacissima.
Inizia così una vera e propria discesa agli inferi: un viaggio nei labirinti della mente dei protagonisti, ma anche in un mondo popolato da feroci assassini e trafficanti di immigrati
, oltre che da bande terroriste che vanno dai guerriglieri no-global ai Lupi grigi turchi.

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La sola foto che i Lupi grigi avessero di lei.

L’immagine sfocata che era costata la vita a tre donne innocenti.

Paul partì lasciando un’ampia traccia di gomma sull’asfalto.

Fissò di nuovo il lampeggiante sul tettuccio e diede corrente: la luce e la sirena perforarono quell’atmosfera da acquario.

Le deduzioni a cascata.

I battiti del suo cuore all’unisono.

Ormai i Lupi grigi seguivano la sua stessa pista. Ci erano voluti tre cadaveri perché capissero il loro sbaglio. Adesso cercavano il chirurgo plastico che aveva trasformato il loro bersaglio.

Nuova vittoria postuma per Schiffer.

«Ci ritroveremo sullo stesso cammino, me lo sento.»

Paul guardò l’orologio: le quattordici e trenta.

Mancavano solo due nomi sulla lista.

Doveva scovare il chirurgo prima che lo facessero gli assassini.

Doveva trovare la donna prima di loro.

Paul Nerteaux contro Azer Akarsa.

Il figlio di nessuno contro il figlio di Asena, la Lupa Bianca.

66.

Frédéric Gruss abitava tra le colline di Saint Cloud. Il tempo di prendere la direttissima lungo la Senna e di filare fino al Bois de Boulogne. Paul contattò di nuovo Naubrel:

«Con i turchi, sempre niente da fare?»

«Sto sgobbando come un matto, ma…»

«Lascia perdere tutto.»

«Cosa?»

«Hai tenuto le copie delle foto del funerale di Türkes?»

«Sì, le ho nel mio computer.»

«C’è un’immagine dove il feretro è in primo piano.»

«Aspetti, prendo nota.»

«Su quella foto, il terzo uomo partendo da sinistra è un giovane con la giacca di velluto. Voglio che tu ingrandisca il suo ritratto e che lanci una segnalazione di ricerca a nome di…»

«Azer Akarsa?»

«Esatto.»

«È lui l’assassino?»

Paul aveva i muscoli della gola così tesi che faceva fatica a parlare:

«Lancia la segnalazione di ricerca.»

«Va bene. È tutto?»

«No. Vai da Bomarzo, il giudice incaricato dell’inchiesta sugli omicidi. Chiedigli un mandato di perquisizione per la società Matak.»

«Io? Sarebbe meglio che andasse lei…»

«Vai da parte mia. Spiegagli che ho delle prove.»

«Delle prove?»

«Un testimone oculare. Chiama anche Matkowska e chiedigli le foto di Nemrut Daği»

«Di cosa?»

Fece di nuovo lo spelling e spiegò di cosa si trattava.

«Chiedigli anche se il nome di Akarsa non è spuntato tra i visti. Metti insieme il tutto e vai dal giudice.»

«E se mi chiede dov’è lei?»

Paul esitò:

«Tu dagli questo numero.»

Dettò il numero di Olivier Amien. Che se la sbrighino tra loro, pensò chiudendo la comunicazione. Era in vista del ponte di Saint-Cloud.

Le quindici e trenta.

Il boulevard de la République luccicava nel sole, serpeggiando lungo la collina che porta a Saint-Cloud. Un grande abbagliamento primaverile che invogliava alle spalle nude, alle pose languide tra i tavolini all’aperto dei caffè. Peccato: per l’ultimo atto, Paul avrebbe preferito un cielo minaccioso. Un cielo da apocalisse, nero e lacerato dal temporale.

Risalendo lungo la strada, si ricordò della sua visita all’obitorio di Garches con Schiffer: quanti secoli erano passati da quel giorno?

Nella parte alta della città trovò vie calme e serene. La crème de la crème dei quartieri chic. Un piccolo concentrato di vanità e di ricchezza che dominava la valle della Senna e la «città bassa».

Paul tremava. La febbre, la stanchezza, l’eccitazione. La sua vista era turbata da brevi eclissi. Stele scure colpivano il fondo delle sue orbite. Era incapace di resistere al sonno, era una delle sue debolezze. Non c’era mai riuscito, neanche quando, da bambino, aspettava, paralizzato dall’angoscia, il ritorno di suo padre.

Suo padre. L’immagine del vecchio cominciava a confondersi con quella di Schiffer; le lacerazioni del sedile in finta pelle si mescolavano alle ferite del cadavere coperto di ceneri…

Fu svegliato da un colpo di clacson. Il semaforo era diventato verde e lui si era addormentato. Ripartì con rabbia e trovò infine la rue des Chênes.

La prese e rallentò, alla ricerca del numero 37. Le case rimanevano invisibili, nascoste com’erano dietro a muri di pietra o a filari di pini. Si sentiva un brontolio d’insetti; tutta la natura sembrava intorpidita dal sole primaverile.

Trovò un posto per parcheggiare proprio davanti al numero civico giusto: un cancello nero, chiuso tra due pilastri imbiancati a calce.

Stava per suonare, quando vide che uno dei due battenti era socchiuso. Nella sua mente si accese un segnale di pericolo. La cosa non quadrava con l’aria di diffidenza che si respirava nel quartiere. Meccanicamente, Paul alzò la linguetta di Velcro che chiudeva la sua pistola.

Il parco della proprietà era senza sorprese. Prato all’inglese, alberi grigi, un vialetto in ghiaia. Al fondo, la casa padronale si stagliava massiccia, con i suoi muri bianchi e le imposte nere. A fianco, un garage a due o tre posti, chiuso con una porta basculante.

Nessun cane e nessun domestico a venirgli incontro. Apparentemente, nessun movimento all’interno.

Il segnale d’allarme nella sua mente salì di tono.

Salì i tre scalini che portavano all’ingresso e notò un’altra dissonanza: una finestra rotta. Deglutì e, molto lentamente, tirò fuori dalla fondina la sua 9 millimetri. Scavalcò la finestra facendo attenzione a non pestare i frammenti di vetro sul pavimento. A un metro, sulla sua destra, si apriva l’atrio. Ogni suo gesto era avvolto dal silenzio. Paul voltò la schiena all’entrata e avanzò nel corridoio.

A sinistra, una porta socchiusa recava la scritta SALA D’ATTESA. Più in là, sulla destra, un’altra porta, spalancata. Senza dubbio lo studio del chirurgo. Scorse dapprima il muro della stanza, ricoperto di materiale insonorizzante: placche di gesso e paglia mescolati.

Poi il pavimento. A terra erano sparse delle fotografie: volti di donna, bendati, tumefatti, suturati. L’ultima conferma ai suoi sospetti: erano venuti a frugare lì.

Dall’altra parte del muro si sentì uno scricchiolio.

Paul si immobilizzò con le dita serrate sul calcio della pistola. In quel momento capì che non sarebbe vissuto per più di un istante. Poco importava la durata dell’esistenza, poco importavano la fortuna, le speranze, le delusioni della vita. La sola cosa che contava era il suo eroismo. Capì che i prossimi secondi avrebbero dato un senso pieno al suo passaggio sulla terra. Qualche oncia di coraggio e di onore nella bilancia delle anime…

Stava balzando verso la porta, quando il muro si squarciò.

Paul fu proiettato verso la parete opposta. Il fuoco e il fumo riempirono d’un tratto il corridoio. Ebbe appena il tempo di scorgere un buco grande come un piatto, che due nuovi colpi lacerarono il materiale isolante. La paglia del conglomerato si infiammò, trasformando il corridoio in un tunnel di fuoco.

Paul si rannicchiò al suolo, la nuca bruciata dalle fiamme. Frammenti di intonaco e di paglia gli caddero addosso.

Quasi subito tornò il silenzio. Paul alzò gli occhi: davanti a lui un ammasso di calcinacci che offriva un’ampia visione dello studio.

Loro erano là.

Tre uomini in tuta nera, imbottiti di cartucciere e mascherati con passamontagna da commando. Ognuno di loro aveva in mano un fucile lanciagranate, modello SG 5040. Prima di allora, Paul l’aveva visto solo sui cataloghi, ma lo riconobbe con certezza.

Ai loro piedi, il cadavere di un uomo in veste da camera. Frédéric Gruss si era assunto gli ultimi rischi del suo mestiere.

D’istinto, Paul cercò la sua Glock. Ma non era più tempo. Sul suo ventre, il sangue gorgogliava, formando meandri rossi tra le pieghe della giacca. Non provava alcun dolore; ne concluse che era stato ferito a morte.

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