Paul sapeva per esperienza che, dopo un lungo tunnel, gli indizi decisivi potevano venir fuori uno dietro l’altro nel giro di poche ore. Risentì ancora una volta la voce di Ajik: È ossessionato dal passato prestigioso della Turchia. Anche lui ha una fondazione, con la quale finanzia degli scavi archeologici.
Il golden-boy finanziava dei lavori di restauro proprio su quel sito? Quei volti ancestrali lo interessavano per una ragione personale?
Paul si fermò, fece un lungo respiro, poi si pose la questione essenziale: Azer Akarsa era l’assassino principale, il capo del commando? La sua passione per gli antichi resti poteva giungere a esprimersi in quegli atti di tortura e di mutilazione? Era ancora troppo presto per andare così lontano. Paul staccò la mente da quella teoria, poi ordinò:
«Concentrati su quei monumenti. Cerca di scoprire se recentemente ci sono stati lavori di restauro. Se sì, cerca chi li finanzia.»
«Lei ha un’idea?»
«Può darsi che sia una fondazione, ma non ne conosco il nome. Se la scopri, trovane l’organigramma e consulta la lista dei principali donatori, dei responsabili. Cerca in particolare il nome di Azer Akarsa.»
Fece di nuovo lo spelling del cognome. Ora gli sembrava che tra le lettere balenassero scintille.
«È tutto?» chiese l’agente.
«No», fece Paul quasi senza voce. «Verifica anche i visti di ingresso concessi ai cittadini turchi a partire dal novembre scorso. Controlla se Akarsa è tra quelli.»
«Ma ci vorranno delle ore!»
«No. È tutto informatizzato. E ho già avvertito un tipo dell’Immigrazione. Contattalo e dagli quel nome. Sbrigati.»
«Ma…»
«Muoviti.»
Didier Laferrière.
12, rue Boissy-d’Anglas, ottavo arrondissement.
Varcando la soglia dell’appartamento, Paul ebbe un presentimento; una sensazione da sbirro, quasi paranormale. Lì c’era qualcosa che faceva al caso suo.
Lo studio era sprofondato nella penombra. Il chirurgo, un omino dai capelli grigi e crespi, rimase dietro la sua scrivania. Con una voce neutra chiese:
«La polizia? Che cosa è successo?»
Paul espose la situazione e tirò fuori le sue foto. Il medico parve farsi ancora più piccolo. Accese una lampada sul tavolo e si chinò verso i documenti.
Senza esitazione, puntò l’indice sul ritratto di Anna Heymes.
«Non l’ho operata, ma questa donna io la conosco.»
Paul serrò i pugni. Santo dio, la sua ora era venuta.
«È passata di qui qualche giorno fa», continuò l’uomo.
«Può essere più preciso?»
«Lunedì scorso. Se vuole posso verificare sull’agenda…»
«Cosa voleva?»
«Aveva un’aria strana.»
«Perché?»
Il chirurgo scosse il capo.
«Mi ha fatto delle domande sulle cicatrici conseguenti a certi interventi.»
«E cosa c’è di strano in questo?»
«Niente. Solo che, o recitava una commedia, o soffriva di amnesia.»
«Perché?»
Il dottore tamburellò col dito sulla foto di Anna Heymes:
«Perché questa donna aveva già subito l’operazione. Alla fine del nostro colloquio, ho notato le cicatrici. Non so cosa cercasse venendo da me. Forse voleva intraprendere un’azione legale contro chi l’aveva operata.»
Riguardò il ritratto.
«Peraltro, si tratta di un lavoro stupendo.»
Un altro punto per Schiffer. «Secondo me, sta investigando su sé stessa.» Era esattamente ciò che era successo: Anna Heymes aveva braccato Sema Gokalp. Aveva risalito il filo del proprio passato.
Paul era senza fiato, aveva l’impressione di seguire una scia di fuoco. La preda era là, davanti a lui, a portata di mano.
«È tutto quello che ha detto?» riprese. «Nessun indirizzo?»
«No. Ha concluso dicendo solo “giudicherò prove alla mano” o qualcosa del genere. Era incomprensibile. Chi è quella donna, esattamente?»
Paul si alzò senza rispondere. Prese un blocco di post-it sulla scrivania e scrisse il proprio numero di cellulare:
«Se per caso la richiama, cerchi di localizzarla. Le parli dell’operazione. Degli effetti collaterali. Qualsiasi cosa. L’importante è che lei la blocchi e mi chiami. Capito?»
«È certo di stare bene?»
Paul si fermò con la mano sulla maniglia della porta:
«Perché?»
«Non so. È tutto rosso.»
Pierre Laroque
24, rue Maspero, sedicesimo arrondissement.
Niente.
Jean-François Skenderi, Clinica Massener,
58, avenue Paul-Doumer, sedicesimo arrondissement.
Niente.
Alle due del pomeriggio, Paul attraversò di nuovo la Senna.
Direzione rive Gauche.
Una forte emicrania l’aveva indotto a rinunciare al lampeggiatore e alla sirena, e cercava frammenti di pace sul volto dei passanti, tra i colori delle vetrine, tra i riflessi del sole. Era meravigliato di fronte a quella gente che viveva una giornata normale in un’esistenza normale.
Chiamò più volte i suoi luogotenenti. Naubrel continuava a battagliare con la Camera di commercio di Ankara. Matkowska stava passando al setaccio i musei, gli istituti di archeologia, gli uffici del turismo e persino l’UNESCO, alla ricerca di chi aveva finanziato i lavori a Nemrut Daği. Nello stesso tempo non perdeva di vista la lista dei visti, che il motore di ricerca continuava ad analizzare, anche se il nome di Akarsa si rifiutava di comparire.
Paul stava soffocando nel suo stesso corpo. Piastre infuocate gli bruciavano il volto. L’emicrania gli spaccava la nuca. E poi palpitazioni lancinanti, così forti che avrebbe potuto contarle. Avrebbe dovuto fermarsi in una farmacia, ma continuava a rimandare quella sosta al crocevia successivo.
Bruno Simonnet
139, avenue de Ségur, settimo arrondissement.
Il chirurgo era un uomo massiccio. In braccio teneva un grosso gatto. A vederli insieme, in una così perfetta osmosi, non si capiva quale dei due accarezzasse l’altro. Paul stava mettendo via le sue foto, quando il medico disse:
«Lei non è il primo a mostrarmi quella faccia.»
«Che faccia?» trasalì Paul.
«Quella là.»
Simonnet indicò l’identikit di Sema Gokalp.
«Chi gliel’ha mostrata prima di me? Un poliziotto?»
Annuì. Le sue dita continuavano a grattare dolcemente la testa del gatto. Paul immaginò che si trattasse di Schiffer:
«Uno di una certa età, robusto, capelli grigi?»
«No. Un giovane. Spettinato. Il tipo dello studente. Parlava con un lieve accento straniero.»
Paul incassò il colpo come un pugile alle corde. Dovette appoggiarsi alla cornice di marmo del camino.
«Un accento turco?»
«E come faccio a saperlo! Comunque sì, probabilmente un accento orientale.»
«Quando è venuto?»
«Ieri mattina.»
«Che nome ha dato?»
«Nessun nome.»
«Un contatto?»
«No. Strano vero? Nei film voi lasciate sempre i vostri dati, no?»
«Torno subito.»
Paul corse alla sua auto. Prese una delle foto dei funerali di Türkes in cui compariva Akarsa. Rientrò e la porse al chirurgo.
«L’uomo in questione compare su questa foto?»
Il medico indicò l’uomo con la giacca di velluto:
«È lui, senza dubbio.»
Alzò gli occhi:
«Non è un suo collega?»
Paul cercò in fondo a sé stesso gli ultimi frammenti di sangue freddo e mostrò di nuovo l’identikit della rossa:
«Lei mi ha detto che le ha fatto vedere questo ritratto. Era esattamente lo stesso? Un disegno come questo?»
«No. Una foto in bianco e nero. Una foto di gruppo. Scattata in un campus universitario o qualcosa del genere. La qualità era pessima, ma la donna era la stessa. Nessun dubbio in proposito.»
Nei suoi occhi balenò per un istante l’immagine di Sema Gokalp, giovane studentessa turca in mezzo ai suoi compagni di corso.
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