Infine, dopo aver svoltato, capì l’avvertimento.
Sotto la luce delle alogene, tutto era grigio: pavimento, pareti, soffitto. Le ceneri dei morti erano uscite dalle nicchie sventrate dai proiettili. Decine di urne erano rotolate a terra, mescolando il loro contenuto alle macerie e all’intonaco.
Sui muri, Paul riuscì a distinguere gli impatti di due armi differenti: un grosso calibro, tipo Shotgun, e una pistola semiautomatica, una 9 millimetri o una 45.
Avanzò, affascinato da quello spettacolo lunare. Aveva visto delle fotografie di città sepolte da un’eruzione vulcanica, nelle Filippine. Strade fossilizzate dalla lava rappresa. Superstiti sconvolti, con facce da statua, che portavano in braccio bambini di pietra. Davanti a lui si stendeva lo stesso panorama.
Superò un nuovo nastro giallo, poi, all’improvviso, in fondo al corridoio, lo vide.
Schiffer aveva vissuto come un bastardo. Ed era morto come un bastardo, in un ultimo soprassalto di violenza.
Il suo corpo, uniformemente grigio, era curvo, di profilo, la gamba destra ripiegata sotto l’impermeabile, la mano destra accartocciata come la zampa di un gallo. Una pozza di sangue si allargava dietro a ciò che restava della scatola cranica, come se uno dei suoi sogni più foschi gli fosse esploso in testa.
Ma la cosa peggiore era la faccia. Le ceneri che la ricoprivano non riuscivano a mascherare l’orrore delle ferite. Un globo oculare era stato strappato, larghi tagli laceravano la gola, la fronte e le guance. Uno di essi, più lungo e profondo, scopriva la gengiva fino a incrociare la ferita dell’orbita. La bocca assumeva così una smorfia atroce, debordante di creta rosa e argento.
Piegato in due da una nausea brutale, Paul si strappò la maschera. Ma il suo stomaco era completamente vuoto. Da quelle convulsioni, l’unica cosa che emerse furono le domande fino a quel momento trattenute: perché Schiffer era venuto lì? Chi l’aveva ucciso? Chi aveva potuto raggiungere un tale grado di barbarie?
In quel momento, cadde in ginocchio e scoppiò in singhiozzi. In un attimo, le lacrime sgorgarono abbondanti, senza che lui cercasse di fermarle o di asciugare il fango che si accumulava sulle sue guance.
Non piangeva per Schiffer.
Non piangeva neppure per le donne assassinate. E neanche per quella che era sotto tiro, in fuga da qualche parte.
Piangeva per sé stesso.
Per la sua solitudine e per il vicolo cieco nel quale ormai si trovava.
«Sarebbe ora che ci parlassimo un po’, non crede?»
Un uomo con gli occhiali, che non aveva mai visto, che non portava la maschera e il cui corpo coperto di polvere sembrava una stalattite, gli stava sorridendo.
«Dunque è lei che ha rimesso in circolazione Schiffer!»
La voce era chiara, forte, quasi allegra, come lo era il blu del cielo.
Paul scosse le ceneri dal suo parka e tirò su col naso; aveva ritrovato un’apparenza di contegno.
«Sì, avevo bisogno di consigli.»
«Che genere di consigli?»
«Sto lavorando su una serie di omicidi nel quartiere turco, a Parigi.»
«La sua iniziativa era stata autorizzata dai superiori?»
«Lei conosce bene la risposta.»
L’uomo con gli occhiali annuì. Non era solo alto: tutto il suo aspetto era imponente. Faccia altera, mento rilevato, fronte ampia incorniciata da ricci grigi. Un alto funzionario nel pieno degli anni, con un profilo curioso da levriero.
Paul sondò il terreno:
«Lei è dell’Ispettorato generale dei servizi?»
«No. Sono Olivier Amien. Osservatorio geopolitica delle droghe.»
Quando lavorava all’OCTRES, Paul sentiva spesso quel nome. Amien era il grande capo della lotta agli stupefacenti in Francia. Un uomo che dettava legge tanto alla narcotici, quanto ai servizi antidroga internazionali.
Voltarono le spalle al tempio crematorio e si incamminarono lungo un vialetto che sembrava una strada acciottolata del XIX secolo. Paul scorse dei necrofori che fumavano, appoggiati a una tomba. Sicuramente stavano parlando dell’incredibile scoperta di quella mattina.
Amien riprese, con un tono carico di sottintesi:
«Credo che lei abbia lavorato anche all’Ufficio centrale degli stupefacenti…»
«Sì, per qualche anno.»
«In quale ambito?»
«Roba piccola. Cannabis soprattutto. Le reti del Nordafrica.»
Amien fece brillare un sorriso nel sole.
«Spero che un breve corso di storia contemporanea non la spaventi…»
Paul pensò a tutti i nomi e a tutte le date che aveva ingurgitato fin dall’alba.
«Faccia pure. Sto seguendo i corsi di recupero.»
L’alto funzionario sistemò sul naso gli occhiali e cominciò.
«Immagino che il nome talebani le dica qualcosa. Dopo l’11 settembre, nessuno ignora più l’esistenza di quegli integralisti. I media hanno passato al setaccio la loro vita e le loro opere… I buddha distrutti. La loro amicizia con Bin Laden. Il loro atteggiamento schifoso verso le donne, verso la cultura e verso ogni forma di tolleranza. Ma c’è una cosa che non si conosce, il solo punto positivo di quel regime: quei barbari hanno lottato con successo contro la produzione di oppio. Durante il loro ultimo anno di potere, hanno praticamente annientato la coltivazione del papavero in Afghanistan. Dalle tremila trecento tonnellate di oppio base prodotte nel 2000, siamo passati a centottantacinque nel 2001. Ai loro occhi, quell’attività era contraria alle leggi coraniche. Certo, dopo che il mullah Omar ha perso il potere, la coltivazione del papavero ha ripreso alla grande. Mentre parliamo, i contadini del Ningarhar guardano schiudersi i fiori della loro semina del novembre scorso. Tra poco, alla fine di aprile, cominceranno la raccolta.»
L’attenzione di Paul andava e veniva, come sotto l’effetto di un’onda interna. La crisi di pianto gli aveva intenerito lo spirito. Era in uno stato di ipersensibilità, pronto a scoppiare a ridere o a piangere al minimo segnale.
«…Ma prima dell’attentato dell’11 settembre», proseguì Amien, «nessuno sospettava che il regime sarebbe finito. Dunque, i narcotrafficanti cominciavano a interessarsi ad altre filiere. I buyuk-baba turchi, i padrini che si occupavano di esportare l’eroina verso l’Europa, si erano orientati verso altri paesi produttori come l’Uzbekistan e il Tagikistan. Non so se lei lo sa, ma sono paesi che condividono le stesse radici linguistiche.»
Paul tirò ancora su col naso:
«Sì, comincio a conoscerle queste cose.»
Amien assentì brevemente.
«Prima, i turchi compravano l’oppio in Afghanistan e in Pakistan. Raffinavano la morfina base in Iran, poi fabbricavano l’eroina nei loro laboratori in Anatolia. Con i popoli di lingua turca, hanno dovuto modificare la loro filiera. Hanno raffinato la gomma nel Caucaso, poi hanno prodotto la polvere bianca nella parte più orientale dell’Anatolia. Questi circuiti hanno richiesto un po’ di tempo per consolidarsi e, stando a quello che sappiamo, fino all’anno scorso erano ancora abbastanza improvvisati. Alla fine dell’inverno 2000-2001 abbiamo sentito parlare di un progetto di alleanza. Un’alleanza triangolare tra la mafia uzbeka, che controlla gli immensi territori delle coltivazioni, i clan russi, eredità dell’Armata Rossa, che controllano da decenni le strade del Caucaso e il lavoro di raffinazione che si svolge in quelle zone, e infine le famiglie turche, che assicurano la fabbricazione dell’eroina propriamente detta. Non avevamo nessun nome, nessuna precisazione, ma alcuni dettagli significativi lasciavano pensare che si stesse preparando una riunione al vertice.»
Giunsero in una parte buia del cimitero. Loculi neri, porte buie, tetti obliqui: quella zona ricordava un villaggio di minatori, schiacciato sotto un cielo di carbone. Amien schioccò la lingua e poi continuò:
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