Uscendo dal locale, Paul annunciò:
«Adesso dividiamo le squadre.»
I due poliziotti accusarono il colpo. Dopo quella notte bianca, speravano certamente di rientrare a casa. Lui ignorò la loro faccia delusa:
«Naubrel, tu riprendi l’inchiesta sulle camere iperbariche.»
«Cosa? Ma…»
«Voglio la lista completa di tutti i siti che ospitano macchinari di quel genere in tutta la regione.»
L’agente aprì le mani in un segno di impotenza:
«Capitano, quest’affare è un vicolo cieco. Con Matkowska abbiamo fatto un rastrellamento a tappeto. Dai cantieri agli impianti di riscaldamento, dalle fabbriche di sanitari alle vetrerie. Abbiamo visitato i laboratori di collaudo, i…»
Paul lo fermò. Se avesse ascoltato la sua stessa volontà avrebbe lasciato perdere. Ma Schiffer, al telefono, gli aveva fatto una domanda a quel proposito; significava che aveva una buona ragione per interessarsene. E ora più che mai, Paul aveva fiducia nell’intuito del vecchio.
«Voglio la lista», tagliò corto. «Tutti i posti dove esiste la minima possibilità che gli assassini abbiano usato la camera iperbarica.»
«E io?» chiese Matkowska.
Paul gli porse le chiavi del suo appartamento:
«Tu vai a casa mia, in rue du Chemin-Vert. Nella mia cassetta delle lettere recuperi i cataloghi, i fascicoli e tutti i documenti riguardanti maschere e busti antichi. È un agente dell’anticrimine che li raccoglie per me.»
«E cosa ne faccio?»
Non è che credesse molto neanche in quella pista, ma, ancora una volta, sentì la voce di Schiffer: E le maschere antiche? L’ipotesi di Paul poteva non essere tanto strampalata…
«Ti sistemi nel mio appartamento», riprese con voce ferma. «Compari ogni immagine con le facce della morte.»
«Perché?»
«Cerca delle somiglianze. Sono certo che l’assassino si ispira a dei reperti archeologici per sfigurarle.»
Il poliziotto guardava incredulo le chiavi che rilucevano nel palmo della sua mano. Paul non disse di più. Dirigendosi verso la sua macchina, concluse:
«A mezzogiorno facciamo il punto. Se, prima di allora, trovate qualcosa di serio, chiamatemi subito.»
Era giunto il tempo di occuparsi di una nuova idea che lo solleticava da un po’: a qualche isolato di là, abitava un consigliere culturale dell’ambasciata di Turchia, Alì Ajik. Valeva la pena di chiamarlo. L’uomo si era sempre mostrato collaborativo nel corso dell’inchiesta e Paul aveva bisogno di parlare con un cittadino turco.
Giunto in macchina, utilizzò il suo cellulare, finalmente ricaricato. Ajik non dormiva, almeno stando a quanto aveva assicurato.
Qualche minuto più tardi, Paul saliva le scale del diplomatico. Vacillava leggermente. La mancanza di sonno, la fame, l’eccitazione…
L’uomo lo accolse in un piccolo appartamento moderno, trasformato nella caverna di Alì Babà. Mobili lucidi che emanavano riflessi dorati. Medaglioni, cornici, lanterne andavano all’assalto dei muri, irradiando l’oro e il rame. Il pavimento spariva sotto i kilim sovrapposti che vibravano tutti degli stessi colori d’ocra. Quell’ambientazione da Mille e Una Notte non si accordava con il personaggio di Ajik, turco moderno e poliglotta d’una quarantina d’anni.
«Prima di me», spiegò in tono di scusa. «L’appartamento era occupato da un diplomatico della vecchia scuola.»
Sorrise, con le mani sprofondate nelle tasche della sua tuta da ginnastica grigio perla:
«Allora, quest’urgenza?»
«Vorrei mostrarle delle fotografie.»
«Delle fotografie? Nessun problema. Entri. Preparo del tè.»
Paul avrebbe voluto rifiutare, ma doveva stare al gioco. La sua visita era informale, per non dire illegale; avanzava sul terreno dell’immunità diplomatica.
Si accomodò a terra, tra i tappeti e i cuscini ricamati, mentre Ajik, seduto con le gambe incrociate, serviva il tè in piccoli bicchieri bombati.
Paul l’osservò. I suoi lineamenti erano regolari, con i capelli neri, tagliati molto corti, che gli fasciavano la testa come un cappuccio. Un volto netto, disegnato con la penna a china. La sola cosa che turbava era lo sguardo, con i suoi occhi asimmetrici. La pupilla sinistra non si muoveva mai ed era sempre posata sul suo interlocutore, mentre l’altra disponeva di tutta la sua mobilità.
Senza toccare il suo bicchiere bollente, Paul attaccò:
«Vorrei dapprima parlarle dei Lupi grigi.»
«Una nuova inchiesta?»
Paul eluse la domanda:
«Che cosa sa di loro?» ^
«È roba molto lontana. Erano potenti soprattutto negli anni Settanta. Uomini molto violenti…»
Bevve piano un sorso di tè.
«Ha notato il mio occhio?»
Paul si fabbricò un’espressione stupita, del tipo: «Adesso che me lo dice…»
«Sì, l’ha notato», sorrise Ajik. «Sono gli Idealisti che me l’hanno cavato. Nel campus dell’università, quando militavo nella sinistra. Avevano dei metodi piuttosto… rudi.»
«E oggi?»
Ajik fece un gesto consumato:
«Non esistono più. Almeno non in forma di gruppo terroristico. Non hanno più bisogno di usare la forza: sono al potere.»
«Non sto parlando di politica. Parlo degli uomini d’azione. Quelli che lavorano per i cartelli criminali.»
La sua espressione assunse una sfumatura ironica:
«Sono strane storie… In Turchia è difficile distinguere la leggenda dalla realtà.»
«Ma è vero o no che alcuni di loro sono al servizio dei clan mafiosi?»
«In passato sì, questo è certo. Ma oggi…»
Corrugò la fronte.
«Ma perché mi fa queste domande? C’è qualche relazione con la serie di omicidi?»
Paul preferì continuare:
«Secondo le mie informazioni, questi uomini, benché lavorino per la mafia, rimangono fedeli alla loro causa.»
«Esatto. In fondo, disprezzano i gangster che danno loro da lavorare. Sono convinti di servire un ideale più elevato.»
«Mi parli di questo ideale.»
Ajik cercò ispirazione, gonfiando esageratamente il petto, come se trattenesse un’enorme boccata di patriottismo.
«Il ritorno dell’impero turco. Il miraggio del Turan.»
«Che cos’è?»
«Ci vorrebbe una giornata intera per spiegarle tutto questo.»
«Per favore», disse Paul con voce più dura. «Devo capire cos’è che li infiamma.»
Alì Ajik si appoggiò su un gomito.
«Il popolo turco nasce nelle steppe dell’Asia centrale. I nostri antenati avevano gli occhi a mandorla e abitavano le stesse regioni dei mongoli. Gli unni, ad esempio, erano dei turchi. Quei nomadi hanno dilagato in tutta l’Asia centrale e hanno raggiunto l’Anatolia nel X secolo dopo Cristo.»
«Ma cos’è il Turan?»
«Un impero fondatore, che sarebbe esistito un tempo, nel quale tutti i popoli di lingua turca dell’Asia centrale sarebbero stati unificati. Una sorta di Atlantide che gli storici hanno spesso indicato, senza mai poter provare che sia esistito. I Lupi grigi sognano quel continente perduto. Sognano di riunire gli uzbechi, i tartari, i turkmeni… Sognano di ricostruire un immenso impero che si estenda dai Balcani al lago Baikal.»
«Un progetto realizzabile?»
«Certamente no. Eppure, in questo miraggio, c’è una parte di realtà. Oggi i nazionalisti raccomandano le alleanze economiche, premono per la condivisione tra i popoli di lingua turca delle risorse naturali.»
Paul si ricordò di quegli uomini dagli occhi a mandorla e dai mantelli di broccato presenti alle esequie di Türkes. Aveva visto giusto: il mondo dei Lupi grigi delineava uno stato nello stato. Una nazione sotterranea, al di sopra delle leggi e delle frontiere degli altri paesi.
Tirò fuori le fotografie dei funerali. Quella posizione da Budda cominciava a fargli venire i crampi.
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