Jean-Christophe Grangé - L'impero dei lupi

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Anna Heymes, moglie di un alto funzionario parigino, dopo un intervento di chirurgia estetica soffre di crisi di amnesia e di terribili allucinazioni. Alla ricerca della sua identità e del suo vero volto, incontra Paul, il giovane commissario che sta indagando sull’atroce omicidio di tre ragazze turche impiegate in un laboratorio clandestino. Paul ha chiesto l’aiuto di un poliziotto in pensione dal passato turbolento, Jean-Louis Schiffer, creando così una coppia eccentrica ma tenacissima.
Inizia così una vera e propria discesa agli inferi: un viaggio nei labirinti della mente dei protagonisti, ma anche in un mondo popolato da feroci assassini e trafficanti di immigrati
, oltre che da bande terroriste che vanno dai guerriglieri no-global ai Lupi grigi turchi.

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Quando Paul ebbe finito, l’alto funzionario pareva rintronato. Dopo un lungo silenzio, chiese:

«È per questo che Charlier è là?»

«Con Beauvanier. Ci sono dentro fino al collo in questa storia. Sono venuti ad assicurarsi che Schiffer sia davvero morto. Ma resta Anna Heymes. E Charlier deve ritrovarla prima che lei parli. La eliminerà appena l’avrà presa. State correndo tutti dietro alla stessa lepre.»

Amien si piazzò davanti a Paul, immobile. La sua espressione aveva la durezza della pietra:

«Charlier è un problema mio. Lei cos’ha per localizzare la donna?»

Paul guardò le tombe intorno a sé. Un ritratto antiquato, in una cornice ovale. Una Vergine placida, con lo sguardo verso il basso, drappeggiata in una languida cappa. Un Cristo taciturno, dai riflessi di bronzo…

Amien gli afferrò violentemente il braccio:

«Qual è la sua pista? L’assassinio di Schiffer le ricadrà addosso. Come poliziotto lei è finito. A meno che non si becchi la ragazza e che l’affare venga portato alla luce. Con lei nel ruolo di eroe. Ripeto la mia domanda: qual è la sua pista?»

«Voglio continuare l’inchiesta per conto mio», dichiarò Paul.

«Mi dia le informazioni, poi si vedrà.»

«Voglio la sua parola.»

Amien si irritò:

«Parli, santo dio.»

Paul abbracciò con un ultimo sguardo i monumenti: la faccia corrosa della Vergine, la lunga testa del Cristo, il cammeo dai tratti seppia… Comprese infine il messaggio: i volti. La sola via per raggiungerla.

«Ha cambiato faccia», mormorò. «Chirurgia estetica. Ho la lista dei dieci chirurghi che, a Parigi, avrebbero potuto effettuare l’operazione. Ne ho già visitati tre. Mi dia il resto della giornata per interrogare gli altri.»

Amien mostrò tutta la sua delusione.

«È… è tutto quello che ha in mano?»

Paul si ricordò dell’impianto di conservazione della frutta, del vago sospetto su Azer Akarsa. Se quel bastardo era implicato nella serie di omicidi, lui lo voleva tutto per sé.

«Sì», mentì. «È tutto. Ed è già parecchio. Schiffer era convinto che il chirurgo ci avrebbe permesso di ritrovarla. Mi lasci provare che aveva ragione.»

Amien serrò le mascelle: ora assomigliava a un predatore. Indicò il cancello alle spalle di Paul:

«La stazione del metrò Alexandre-Dumas è dietro di lei, a cento metri. Sparisca. Le do fino a mezzogiorno per beccarla.»

Paul capì che il poliziotto lo aveva portato lì intenzionalmente. Era fin dall’inizio che voleva proporgli quel patto. Gli infilò un biglietto da visita nella tasca:

«Il mio cellulare. La ritrovi, Nerteaux. È la sua sola possibilità di venirne fuori. Altrimenti, nel giro di qualche ora, la preda sarà lei.»

63.

Paul non prese il metrò. Nessun poliziotto degno di questo nome prende il metrò.

Corse fino a piace Gambetta, seguendo il muro di cinta del cimitero, e recuperò la sua macchina parcheggiata in rue Emile-Landrin. Tirò fuori la sua vecchia mappa di Parigi, ancora macchiata di sangue, e rilesse la lista degli ultimi medici.

Sette chirurghi.

Distribuiti su quattro quartieri di Parigi e due cittadine dell’hinterland.

Segnò il loro indirizzo con un cerchio sulla carta, poi mise a punto l’itinerario più rapido per interrogarli l’uno dopo l’altro.

Quando fu sicuro della via da seguire, fissò il lampeggiatore e sgommò, concentrato sul primo nome.

Dottor Jérôme Chéret.

18, rue du Rocher, ottavo arrondissement.

Puntò a ovest, risalì il boulevard de la Villette, il boulevard Rochechouart, poi il boulevard de Clichy. Passava sulle corsie preferenziali dei bus, divorava le piste ciclabili, mordeva i marciapiedi e, per due volte, prese persino delle strade contromano.

Giunto in vista del boulevard de Batignolles, rallentò e chiamò Naubrel:

«Dove sei?»

«Sto uscendo dallo stabilimento della Matak. Me la sono cavata con i tipi dell’Ufficio d’igiene. Una visita a sorpresa.»

«E allora?»

«Una fabbrica bianchissima, pulitissima. Un vero laboratorio. Ho visto la camera iperbarica. Lavata con cura: inutile cercare qualsiasi traccia. Ho anche parlato con gli ingegneri…»

Paul aveva immaginato un sito industriale in stato di abbandono, pieno di ruggine e di grida che nessuno avrebbe potuto sentire. Ma l’idea di uno spazio immacolato gli parve di colpo più adatta.

«Hai interrogato il capo stabilimento?» chiese.

«Sì. Con discrezione. È un francese. Mi è sembrato pulito.»

«E più in alto? Sei risalito ai proprietari turchi?»

«Lo stabilimento dipende da una società per azioni, la YALIN AS, a sua volta appartenente a una holding con sede ad Ankara. Ho già contattato la Camera di commercio di…»

«Vedi di sbrigarti. Trova la lista degli azionisti. E controlla prima di tutto il nome di Azer Akarsa.»

Riagganciò e consultò l’orologio: venti minuti da quando era partito dal cimitero.

All’incrocio di Viller, svoltò bruscamente a sinistra e si ritrovò in rue du Rocher. Spense la sirena e il lampeggiatore: era d’obbligo un ingresso senza clamore.

Alle undici e venti suonava il campanello di Jérôme Chéret. Venne fatto passare per una porta secondaria, per non spaventare la clientela. Il medico lo ricevette discretamente nell’anticamera della sala operatoria.

«Solo un’occhiata», disse Paul dopo qualche parola di spiegazione.

Questa volta si limitò a due documenti: l’identikit di Sema Gokalp e il nuovo viso di Anna.

«È la stessa?» chiese il medico con tono ammirato. «Bel lavoro.»

«La conosce o no?»

«Né una né l’altra. Spiacente.»

Paul scese di corsa le scale, tra tappeti rossi e stucchi bianchi.

Un segno di cancellatura sulla mappa e di nuovo in strada.

Erano le undici e quaranta.

Dottor Thierry Dewaele.

22, rue de Phalsbourg, diciassettesimo arrondissement.

Stesso genere di edificio, stesse domande, stessa risposta.

Alle dodici e quindici, mentre Paul girava di nuovo la chiave di avviamento, il telefonino gli squillò nella tasca. Un messaggio di Matkowska: aveva già chiamato durante il suo breve colloquio con il medico. Evidentemente, dietro quegli spessi muri da casa di lusso, il telefonino non prendeva. Lo richiamò.

«Ho delle novità sulle sculture antiche», disse Matkowska. «Un sito archeologico che riunisce delle teste giganti. Ho le foto. Quelle statue presentano delle fessure… Hanno esattamente lo stesso andamento delle mutilazioni…»

Paul chiuse gli occhi. Non capiva cosa lo esaltava maggiormente: l’avvicinarsi alla follia omicida o l’aver avuto ragione fin dall’inizio.

Matkowska proseguì, agitato:

«Sono teste di dei, mezzi greci e mezzi persiani, che risalgono agli inizi dell’era cristiana. Il santuario di un re, in cima a una montagna, nella Turchia orientale…»

«Dove esattamente?»

«A sud-est. Verso la frontiera siriana.»

«Dammi dei nomi di città importanti.»

«Aspetti.»

Sentì rumore di fogli e bestemmie soffocate. Si guardò le mani: non tremavano. Si sentiva pronto, foderato da un involucro di ghiaccio.

«Ecco. Ho la cartina. Il sito archeologico di Nemrut Daği è vicino ad Adiyaman e a Gaziantep.»

Gaziantep. Una nuova convergenza di eventi in direzione di Azer Akarsa. Possiede immense coltivazioni nella sua regione natale, vicino a Gaziantep , aveva detto Alì Ajik. Quelle coltivazioni erano forse situate ai piedi della stessa montagna che ospitava le sculture? Azer Akarsa era cresciuto all’ombra di quelle teste colossali?

Paul tornò al punto cruciale. Aveva bisogno di sentirselo confermare:

«E quelle teste richiamano veramente il viso delle vittime?»

«Capitano, è allucinante. Le stesse spaccature, le stesse mutilazioni. C’è la statua di una dea della fertilità che assomiglia perfettamente al volto della terza vittima. Niente naso, mento piallato… Ho sovrapposto le due immagini. Le fessure coincidono al millimetro. Non so cosa voglia dire, ma è roba da prendersi un colpo e…»

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