Jean-Christophe Grangé - L'impero dei lupi

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Anna Heymes, moglie di un alto funzionario parigino, dopo un intervento di chirurgia estetica soffre di crisi di amnesia e di terribili allucinazioni. Alla ricerca della sua identità e del suo vero volto, incontra Paul, il giovane commissario che sta indagando sull’atroce omicidio di tre ragazze turche impiegate in un laboratorio clandestino. Paul ha chiesto l’aiuto di un poliziotto in pensione dal passato turbolento, Jean-Louis Schiffer, creando così una coppia eccentrica ma tenacissima.
Inizia così una vera e propria discesa agli inferi: un viaggio nei labirinti della mente dei protagonisti, ma anche in un mondo popolato da feroci assassini e trafficanti di immigrati
, oltre che da bande terroriste che vanno dai guerriglieri no-global ai Lupi grigi turchi.

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«Perché?»

«Appartiene a un’impresa turca.»

Paul percepì un pizzicore alla radice dei capelli.

«Qual è il nome?»

«Società Matak.»

Due sillabe che non gli dicevano nulla, naturalmente.

«Cosa fanno come prodotti?»

«Succhi di frutta e confetture fini. Secondo le mie informazioni, è più un laboratorio che un sito industriale. Una vera unità pilota.»

Il pizzicore si trasformò in onde elettriche. Azer Akarsa. Il golden-boy nazionalista che aveva fondato il proprio successo sulla frutticoltura. Il ragazzo venuto da Gaziantep. Poteva esserci un rapporto?

Con voce più ferma, Paul riprese:

«Devi trovare il modo di visitare quel luogo.»

«Adesso?»

«Secondo te? Voglio che tu ispezioni da cima a fondo i loro spazi pressurizzati. Ma attenzione: niente di ufficiale, niente tesserino.»

«Ma come vuole che faccia?»

«Inventati qualcosa. Voglio anche che tu identifichi i proprietari dell’azienda in Turchia.»

«Sarà certamente una holding o una società per azioni!»

«Interroga i responsabili sul posto. Contatta la Camera di Commercio qui in Francia. E in Turchia, se è necessario. Voglio la lista dei principali azionisti.»

Naubrel parve capire che il suo superiore aveva un’idea per la testa.

«Che cosa cerchiamo di preciso?»

«Forse un nome: Azer Akarsa.»

«Che cazzo di nomi… Può farmi lo spelling?»

Paul sillabò. Stava per riagganciare quando l’agente chiese:

«Ha acceso la radio?»

«Perché?»

«Questa notte, al cimitero Père-Lachaise, hanno rinvenuto un cadavere. Un corpo mutilato.»

Sentì tra le costole una freccia gelata.

«Una donna?»

«No. Un uomo. Un poliziotto. Un ex del decimo arrondissement. Jean-Louis Schiffer. Uno specialista di roba turca e…»

I danni maggiori causati da una pallottola nel corpo umano non sono provocati dal proiettile in sé, ma dalla sua scia, dal vuoto distruttore che essa crea, come una coda di cometa attraverso la pelle, i tessuti, le ossa.

Paul sentì che quelle parole lo attraversavano allo stesso modo, amplificandosi nelle sue viscere, disegnando una linea di dolore che lo fece urlare. Ma neppure lui sentì il suo grido, perché aveva già piazzato il lampeggiatore sul tettuccio e aveva già azionato la sirena.

61.

Erano tutti là.

Poteva classificarli a seconda della loro tenuta. Gli alti papaveri di piace Beauveau, cappotto nero e scarpe lucidate, che portavano il lutto come una seconda natura. I commissari e i capi brigata, in verde mimetico o in pied-de-poule autunnale, assomigliavano a cacciatori appostati. Gli agenti della giudiziaria, con il giubbotto di pelle e il bracciale rosso, sembravano papponi riconvertiti in poliziotti. Indipendentemente dal grado o dalla funzione, la maggior parte di loro portava i baffi. Era un segno di appartenenza, un marchio che superava le differenze, atteso quanto la coccarda sui loro tesserini.

Paul superò la barriera dei furgoni e delle autopattuglie con i lampeggiatori che giravano in silenzio, ai piedi del tempio crematorio. Si infilò con discrezione sotto il nastro giallo che sbarrava l’ingresso degli edifici.

Una volta all’interno della recinzione, girò a sinistra, sotto le arcate, a si piazzò dietro a una colonna. Non si concesse il tempo di ammirare il posto, di guardare quelle lunghe gallerie tappezzate di nomi e di fiori, quell’atmosfera di rispetto sacro che affiorava dal marmo, dove la memoria dei morti planava come una bruma sopra l’acqua. Si concentrò piuttosto su un gruppo di poliziotti, in piedi nel giardino, per cercare di scorgere tra loro dei volti conosciuti.

Il primo che vide fu Philippe Charlier. Drappeggiato nel suo loden, il Gigante Verde meritava più che mai il suo soprannome. Vicino a lui c’era Christophe Beauvanier, cappellino da baseball e giacca di pelle. Quei due poliziotti, interrogati nella notte da Schiffer, sembravano essersi precipitati lì come sciacalli per assicurarsi che il corpo fosse davvero freddo. Non lontano, Paul notò Jean-Pierre Guichard, il procuratore della Repubblica, Claude Monestier, il commissario capo del Louis-Blanc e anche il giudice Thierry Bomarzo, uno dei pochi che conoscesse il vero ruolo svolto da Schiffer in tutto quell’affare di merda. Paul capì che quella parata ufficiale significava per lui soltanto che la sua carriera non sarebbe sopravvissuta a tutto quel casino.

Ma la cosa più sorprendente era la presenza di Morencko, il capo dell’antiterrorismo, e di Pollet, il comandante della narcotici. C’era un po’ troppa gente per la morte di un semplice ispettore in pensione. Paul pensò a una bomba la cui potenza si sarebbe rivelata solo dopo l’esplosione.

Si avvicinò, sempre al riparo delle colonne. Nella sua testa avrebbero dovuto affollarsi le domande. E invece era colpito da un fatto. Quel corteo di figure scure, sotto le volte del tempio, gli ricordava stranamente le esequie di Alpaslan Türkes. Stesso fasto, stessa solennità, stessi baffi. A suo modo, Jean-Louis Schiffer era riuscito a ottenere dei funerali di stato.

Scorse un’ambulanza, in fondo al parco, ferma vicino a un’entrata sotterranea. Alcuni infermieri in blusa bianca fumavano e parlavano con gli agenti in uniforme. Sicuramente stavano aspettando che la polizia scientifica finisse i rilievi per portare via il corpo. Dunque, Schiffer era ancora all’interno.

Paul uscì dal suo nascondiglio e si diresse verso l’entrata, riparato dalle siepi di ligustro. Stava per raggiungere la scala, quando una voce lo chiamò:

«Ehi! Di là non si passa.»

Si girò e mostrò il tesserino. Il piantone si impietrì, quasi sull’attenti. Paul lo abbandonò al suo stupore e, senza una parola, scese fino al cancello di ferro forgiato.

Gli sembrò di entrare nel dedalo di una miniera, con le sue gallerie e i suoi diversi livelli. Poi i suoi occhi si abituarono all’oscurità e cominciò a comprendere la topografia del luogo. Dei camminamenti bianchi e neri scandivano migliaia di nicchie, di nomi, di mazzi di fiori sospesi in guaine di vetro. Una città troglodita scavata nella roccia.

Si sporse al di sopra di un pozzo aperto sui piani inferiori. Nel secondo interrato riluceva un alone bianco: gli uomini della scientifica erano laggiù. Trovò una nuova scala e scese. Man mano che si avvicinava alla luce, l’aria sembrava scurirsi e pigmentarsi. Nelle narici si insinuava uno strano odore: secco, pungente, minerale.

Giunto al secondo livello, girò a destra. Più che la sorgente luminosa, ora egli seguiva l’odore. Alla prima svolta, vide dei tecnici in tuta bianca, con in testa dei berretti di carta. Avevano installato il loro quartier generale all’incrocio di diverse gallerie. Nelle loro valige cromate, appoggiate su contenitori in plastica, si intravvedevano provette, fiale, spray. Paul si avvicinò senza far rumore; le due sagome gli voltavano la schiena.

Non dovette sforzarsi per tossire: l’aria era satura di polvere. I cosmonauti si girarono; portavano delle maschere a forma di Y rovesciata. Paul esibì di nuovo il tesserino. Una delle teste d’insetto fece «no», alzando le mani guantate.

Risuonò una voce soffocata, impossibile dire quale dei due parlasse:

«Spiacente. Stiamo cominciando il lavoro delle impronte.»

«Solo un minuto. Era il mio compagno. Cazzo, cercate di capirmi.»

Le due Y si guardarono. Trascorse qualche istante. Uno dei tecnici prese una maschera nella valigia:

«Terzo corridoio», disse. «Segui le luci. E resta sulle tavole di legno. Non un piede a terra.»

Ignorando la maschera, Paul si mise in marcia. L’uomo lo fermò:

«Prendila. Altrimenti non riuscirai a respirare.»

Imprecando, Paul fissò il guscio bianco. Costeggiò il primo corridoio sulla sinistra, camminando sulle assi e scavalcando i cavi dei proiettori installati a ogni incrocio. I muri gli parevano interminabili, come interminabile era la litania di nicchie e di iscrizioni funerarie, mentre nell’aria le particelle grigie aumentavano di densità.

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