Ora sa perché ha agito, perché è fuggita con la droga.
Per la libertà, certo.
Ma anche per vendicarsi di un fatto ben determinato.
Prima di continuare ha bisogno di verificare quel punto.
Deve trovare un ospedale. E un ginecologo.
Tutta la notte a scrivere.
Una lettera di dodici pagine, indirizzata a Mathilde Wilcrau, rue Le Goff, Parigi. In quelle pagine, lei spiega tutta la sua storia. Le sue origini. La sua formazione. Il suo mestiere. E l’ultimo carico.
E fa anche i nomi. Kürsat Milihit. Azer Akarsa. Ismall Kudseyi. Mette tutti i cognomi al loro posto, come se sistemasse i pedoni su una scacchiera. Descrive con precisione il loro ruolo e la loro posizione. Ricostruisce ogni frammento dell’affresco…
Sema le deve delle spiegazioni.
Perché gliel’ha promesso, nella cripta del cimitero; ma soprattutto perché vuole rendere comprensibile quella storia nella quale la psichiatra ha rischiato la sua vita senza avere nulla in cambio.
Ogni volta che scrive «Mathilde», sulla carta chiara dell’hotel, tutte le volte che stringe la penna per tracciare quel nome, Sema si dice che forse non ha mai avuto qualcosa di così solido come quelle sillabe.
Accende una sigaretta e si prende il tempo di ricordare. Mathilde Wilcrau. Una donna alta e forte, dai capelli nerissimi e dal sorriso troppo rosso. La prima volta che ha guardato quel sorriso le sono venuti in mente i gambi di papavero che bruciava per conservarne il colore.
Ora che ha ritrovato la memoria delle sue origini, quell’immagine si riveste d’un senso nuovo. Il paesaggio di sabbia non apparteneva alle lande francesi, come credeva, ma ai deserti dell’Anatolia. Papaveri, papaveri selvatici: si profilava già l’ombra dell’oppio. Sema si ricorda che provava un fremito, un misto di eccitazione e paura, nel bruciare quei gambi: sentiva un legame segreto tra la fiamma nera e lo schiudersi colorato dei petali.
Lo stesso mistero che scintilla in Mathilde Wilcrau.
Una zona bruciata dentro di lei esalta il rosso assoluto del suo sorriso.
Sema termina la sua lettera. Esita un istante: deve scriverle anche quello che ha scoperto in ospedale qualche ora prima? No. Quella è una cosa che riguarda solo lei. Firma e infila il foglio nella busta.
La radiosveglia della sua camera segna le quattro.
Pensa un’ultima volta al suo piano. Non puoi tornare a mani vuote… aveva detto Kürsat. Né «Le Monde» né i telegiornali hanno fatto riferimento alla droga sparsa nella cripta. Ci sono dunque buone probabilità che Azer Akarsa e Ismaïl Kudseyi non sappiano che l’eroina è andata perduta. Almeno virtualmente, Sema ha qualcosa per negoziare.
Deposita la busta davanti alla porta, poi entra in bagno.
Lascia che dal rubinetto del lavabo scenda un filo d’acqua e prende il pacchetto che ha acquistato prima in una drogheria di Beylerbeyi.
Versa il pigmento nel lavandino e osserva i meandri rossi che si condensano in una fanghiglia bruna.
Si osserva per un attimo nello specchio. Il viso spaccato, le ossa frantumate, la pelle ricucita: sotto quell’apparente bellezza si cela un’altra menzogna…
Sorride alla propria immagine riflessa e mormora:
«Non c’è altra scelta.»
Poi immerge con precauzione l’indice nell’henné.
Le cinque.
Stazione di Haydarpaşa.
Una stazione ferroviaria e marittima al tempo stesso. Tutto esattamente come se lo ricordava. L’edificio centrale, un ferro di cavallo in mezzo a due massicce torri, che sembra abbracciare lo stretto e rivolgere un invito al mare. Poi, tutto intorno, le dighe, muri di pietra a delimitare un labirinto d’acqua. Alla fine della seconda diga si innalza un faro, una torre isolata, quasi appoggiata sui canali.
A quell’ora tutto è scuro, freddo, spento. Una sola luce palpita debolmente nella stazione, attraverso i vetri appannati: una luce rossa, fioca, esitante.
Il chiosco dell’ iskele , l’imbarcadero, brilla anch’esso, riflettendosi nell’acqua con una macchia blu, quasi viola.
Le spalle alte, il colletto tirato su, Sema fiancheggia l’edificio, poi risale lungo la riva. Quello spettacolo sinistro è proprio ciò che fa per lei: ci contava su quel deserto silenzioso e intorpidito dal gelo. Si dirige verso il porto turistico. Il ticchettio incessante delle cime e delle vele la segue da vicino.
Sema osserva ogni barca, ogni battellino. Infine, scorge un’imbarcazione il cui proprietario sta dormendo raggomitolato sotto un telone. Lo risveglia e contratta. Stupito, l’uomo accetta la somma che gli viene proposta: un capitale. Lei gli assicura che non andrà al di là della seconda diga e che non perderà mai di vista la barca. Il marinaio accetta; senza dire una parola, accende il motore, poi salta a terra.
Sema prende il timone. Fa manovra in mezzo alle altre imbarcazioni e abbandona il molo. Segue la prima diga, ne contorna l’estremità, poi costeggia la seconda fino al faro. Nessun rumore intorno a lei. Lontano, nel buio, si staglia il ponte illuminato di un cargo: sotto la luce dei proiettori si agitano delle ombre. Per un attimo prova un senso di complicità e di solidarietà per quei fantasmi dorati.
Accosta alle rocce. Lega l’imbarcazione e raggiunge il faro. Senza difficoltà, forza la porta. L’interno è stretto, ghiacciato, ostile a ogni presenza umana. Il faro è automatizzato e sembra non aver bisogno di niente e di nessuno. In cima alla torre, l’enorme proiettore gira lentamente sul suo perno con lunghi gemiti.
Sema accende la sua torcia elettrica. Il muro circolare, vicinissimo, è sporco e umido. Il pavimento è pieno di pozzanghere. Lo spazio disponibile è completamente occupato da una scala a chiocciola di ferro. Sema sente il rumore delle onde sotto i suoi piedi. Le sembra d’essere ai confini del mondo, in una solitudine totale. Il posto ideale.
Prende il cellulare di Kürsat e compone il numero di Azer Akarsa.
Squilla. Dall’altra parte alzano il telefono. Silenzio. Dopo tutto sono solo le cinque del mattino…
Parlando in turco, dice:
«Sono Sema.»
Il silenzio persiste. Poi la voce di Azer Akarsa risuona, vicinissima:
«Dove sei?»
«A Istanbul.»
«E cosa proponi?»
«Un incontro. Noi due soli. In campo neutro.»
«Dove?»
«Alla stazione di Haydarpaşa. Sulla seconda diga c’è un faro.»
«A che ora?»
«Adesso. Vieni solo. In barca.»
Nella voce dell’altro si sente un sorriso:
«Per farmi sparare come un coniglio?»
«Questo non risolverebbe i miei problemi.»
«Non vedo cosa potrebbe risolverli, i tuoi problemi.»
«Se vieni lo scopri.»
«Dov’è Kürsat?»
Il numero del suo telefono deve essere comparso su quello del suo interlocutore. A cosa servirebbe mentire?
«È morto. Ti aspetto. Haydarpaşa. Solo. E in barca a remi.»
Interrompe la comunicazione e guarda fuori, attraverso la finestra con l’inferriata. La stazione marittima si sta animando. Un traffico lento, impastato d’alba, si mette piano piano in movimento. Un battello abbandona le onde e scivola lungo i binari fino a giungere sotto le arcate di un cantiere.
Il suo posto d’osservazione è perfetto. Da lì può sorvegliare la stazione, gli imbarcaderi, il molo e la prima diga: impossibile avvicinarsi a lei di nascosto.
Si siede sugli scalini, tremando di freddo.
Sigaretta.
I suoi pensieri vanno alla deriva e, senza una precisa ragione, le si ridesta un ricordo. Il calore del gesso sulla pelle. Le maglie di garza incollate alle carni. Il prurito insopportabile sotto i bendaggi. Ricorda la convalescenza, in un lungo dormiveglia, imbottita di sedativi. E soprattutto il suo spavento di fronte alla nuova faccia, gonfia da scoppiare, blu di ematomi, coperta di croste…
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