Jean-Christophe Grangé - L'impero dei lupi

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Anna Heymes, moglie di un alto funzionario parigino, dopo un intervento di chirurgia estetica soffre di crisi di amnesia e di terribili allucinazioni. Alla ricerca della sua identità e del suo vero volto, incontra Paul, il giovane commissario che sta indagando sull’atroce omicidio di tre ragazze turche impiegate in un laboratorio clandestino. Paul ha chiesto l’aiuto di un poliziotto in pensione dal passato turbolento, Jean-Louis Schiffer, creando così una coppia eccentrica ma tenacissima.
Inizia così una vera e propria discesa agli inferi: un viaggio nei labirinti della mente dei protagonisti, ma anche in un mondo popolato da feroci assassini e trafficanti di immigrati
, oltre che da bande terroriste che vanno dai guerriglieri no-global ai Lupi grigi turchi.

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«Quel nome ormai lo sanno tutti. Basta leggere i giornali di Parigi.»

Kudseyi si zittì. Avrebbe potuto porle altre domande, ma ormai si era convinto. Non era certo arrivato fino a quell’età senza comprendere quella legge ineludibile: più i fatti parevano assurdi, più c’erano probabilità che fossero veri. Eppure, continuava a non capire il comportamento della giovane donna:

«Perché sei tornata?»

«Volevo annunciare la morte di Sema. Lei è morta assieme ai miei ricordi.»

Kudseyi scoppiò a ridere:

«E speri che ti lasci andare così?»

«Non spero nulla. Ormai sono un’altra e non voglio più continuare a scappare per conto di un’altra donna.»

Lui si alzò e fece qualche passo, poi puntò il bastone verso di lei:

«Devi davvero aver perso la memoria per venire da me a mani vuote.»

«Non c’è più la colpevole. Non c’è più il castigo.»! Kudseyi si sentì invadere da uno strano calore che gli correva lungo le vene. Incredibile: era tentato di risparmiarla. Sarebbe stato un epilogo possibile, forse il più originale, il più raffinato. Lasciare che la nuova creatura prendesse il volo… Dimenticare tutto… Ma, fissandola negli occhi, riprese:

«Non hai più volto. Non hai più passato. Non hai più nome. Sei diventata una sorta di astrazione. Tutto questo è vero. Ma hai conservato la capacità di soffrire. Laveremo il nostro onore nel letto del tuo dolore…»

A Ismaïl Kudseyi mancò il fiato.

La donna tendeva davanti a lui le sue mani, il palmo all’insù, come in segno di offerta.

E in ogni palmo c’era un disegno tracciato con l’henné. Un lupo ululante sotto quattro lune. Era il segno di riconoscimento. Il simbolo utilizzato dai membri della nuova filiera. Era stato lui stesso ad aggiungere alle tre lune della bandiera ottomana una quarta che simboleggiava la Mezzaluna d’Oro.

Kudseyi abbandonò il bastone e, indicando Sema, urlò:

«Lei sa tutto. LEI SA TUTTO!»

Sema seppe approfittare di quel momento di stupore. Balzò alle spalle di una delle due guardie e la cinturò brutalmente. La sua mano destra si chiuse sulle dita dell’uomo e il grilletto dell’MP-7 fece partire una raffica in direzione della pedana.

Ismaïl Kudseyi sentì che l’altra guardia lo afferrava e lo spingeva ai piedi del divano. Rotolò a terra e vide il suo difensore che volteggiava tra gli schizzi di sangue, mentre il mitragliatore sventagliava lo spazio circostante. Le scintille si incrociavano nell’aria, il soffitto si riempiva di nuvole di gesso. Il primo uomo, quello che Sema usava come scudo, crollò proprio nel momento in cui lei gli strappava l’arma di mano.

Kudseyi cercò Azer, ma non lo vide.

Sema si gettò dietro uno dei bauli e lo rovesciò per mettersi al riparo. In quel momento entrarono nella sala altri due uomini. Non avevano ancora fatto un passo che già erano stati colpiti: il suono sordo della pistola della donna faceva da contrappunto alle mitragliate delle armi automatiche.

Ismaïl Kudseyi tentò di infilarsi dietro al divano, ma non riuscì a muoversi: il suo corpo non eseguiva più gli ordini impartiti dal cervello. Era bloccato al suolo, inerte. Capì la verità: era stato colpito.

Sulla soglia apparvero altre tre guardie e spararono a turno, nascondendosi subito dietro lo stipite. Di fronte alle fiammate dei fucili, Kudseyi chiudeva gli occhi, ma gli spari non li sentiva più: gli sembrava di avere il cervello pieno d’acqua.

Si rannicchiò, con le dita che stringevano un cuscino. Una fitta dolorosa lo attraversò all’altezza del ventre. Guardò in basso: i suoi visceri erano scoperti e gli pendevano tra le gambe.

Tutto si fece nero. Quando tornò in sé, vide Sema, alla base degli scalini, che ricaricava la pistola al riparo del baule. Si sporse verso il bordo della pedana e tese un braccio. Una parte di lui non riusciva a credere a quel gesto: stava chiedendo aiuto.

Stava chiedendo aiuto a Sema Hunsen!

Lei si girò. Con le lacrime agli occhi, Kudseyi agitò la mano. Sema esitò un secondo, poi salì gli scalini, piegata sotto i colpi che non cessavano. Il vecchio ebbe un gemito di riconoscenza. Porse la sua mano scheletrica, rossa, fremente, ma la donna non la afferrò.

Si alzò e puntò la pistola con uno sforzo di tutto il corpo, come se stesse tendendo un arco.

In una bianchezza accecante, Ismaïl Kudseyi comprese perché Sema Hunsen era tornata a Istanbul.

Solo per ammazzarlo.

E per tagliare l’odio alla fonte.

E forse, anche per vendicare un albero della vita.

Un albero al quale lui aveva fatto legare le radici.

Svenne di nuovo. Quando riaprì gli occhi, Azer e Sema stavano lottando al suolo, in mezzo alle pozzanghere di sangue. Strette, pugni, calci, ma non un grido. Solo l’ostinazione soffocata dell’odio. La rabbia di corpi che volevano sopravvivere.

Azer e Sema.

La sua malefica progenie.

Sema cercò la propria arma, ma Azer la schiacciò a terra con il suo peso. Le premette la testa contro il pavimento e, con l’altra mano, estrasse il coltello. Lei si sottrasse alla presa e si girò sul dorso, ma lui, con la lama, la colpì al ventre. Sema sputò una parola soffocata, sillabe di sangue.

Kudseyi giaceva ancora sulla pedana e vedeva tutto. I suoi occhi, come lente valve, battevano il ritmo delle sue arterie. Pregò di morire prima della fine di quel combattimento, ma non poté impedirsi di osservarlo.

La lama si abbatté, poi si alzò e si abbatté ancora, indugiando in fondo alle carni lacerate.

Sema cercò di inarcare il corpo. Azer la prese per le spalle e la schiacciò a terra. Buttò via il coltello e infilò il braccio dentro le ferite aperte.

Più in là, Ismaïl Kudseyi sprofondava nelle sabbie mobili della morte.

Qualche secondo prima della fine, vide delle mani scarlatte tendersi verso di lui, cariche del loro bottino…

Il cuore di Sema tra le dita di Azer.

EPILOGO

Alla fine di aprile, nell’Anatolia orientale le nevi d’altitudine cominciano a sciogliersi e liberano il cammino fino alla cima più elevata dei monti Tauri, il Nemrut Daği. La stagione turistica non è ancora iniziata e il luogo rimane nella sua perfetta solitudine.

Dopo ogni missione, l’uomo attendeva quel momento per ritornare dai suoi dei di pietra.

Il giorno prima, il 26 aprile, era decollato dall’aeroporto di Istanbul ed era atterrato nel tardo pomeriggio ad Adana. Si era riposato qualche ora in un hotel vicino all’aeroporto, poi, in piena notte, a bordo di un’auto noleggiata, aveva ripreso il viaggio.

Ora stava guidando verso oriente, in direzione di Adiyaman, a quattrocento chilometri da lì. Tutto intorno, ampi pascoli dalle ondulazioni leggere. Quell’oscillare d’ombre rappresentava la prima tappa, il primo stadio della purezza. Gli tornò alla mente l’inizio di una poesia che, da giovane, aveva scritto in turco antico: « Ho solcato i mari del verde… »

Alle sei e trenta, dopo che aveva superato la città di Gaziantep, il paesaggio cambiò. Nelle prime luci del giorno, apparve la catena dei monti Tauri. I pascoli fluidi lasciarono il posto a deserti pietrificati, all’elevarsi di picchi scoscesi e rossi, mentre più in là si aprivano crateri come girasoli essiccati.

Di fronte a quello spettacolo, di solito i viaggiatori provavano un’apprensione, un’angoscia confusa. Lui, al contrario, amava quei toni d’ocra e di giallo, più forti e più crudi del blu dell’alba. O, ritrovava le proprie tracce, l’aridità che lo aveva forgiato. Era il secondo stadio della purezza. Si ricordò il seguito della sua poesia:

«Ho solcato i mari del verde,
Ho abbracciato pareti di pietra, orbite d’ombra…»

Quando si fermò ad Adiyaman, il sole stava per spuntare. Alla stazione di servizio della città, riempì il serbatoio della sua macchina, mentre il ragazzo puliva il parabrezza. Poi guardò, intorno a sé, le macchie di ferro, le case color del bronzo disperse fino a piedi della montagna.

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