Fronte, tempie, bocca: tornò più volte all’attacco. La faccia dell’uomo si lacerava schizzando sangue da ogni parte. Confuso, perse la pistola e prese ad agitare le braccia come se fosse stato assalito da uno sciame di api assassine.
Anna gli diede il colpo di grazia. Si gettò su di lui. Rotolarono a terra. Il vetro gli si infilò nella guancia destra. Anna continuò a premere, uncinando letteralmente la pelle, mettendo a nudo la gengiva.
Aiutandosi con i gomiti, Mathilde scivolò sulla schiena. Urlava, senza riuscire a distogliere gli occhi da quel combattimento selvaggio.
Anna lasciò infine il vetro e si alzò. L’uomo, nella fanghiglia delle ceneri, gesticolava, cercando di estrarre il coccio piantato nella propria orbita. Anna raccolse la pistola e aprì le mani dell’agonizzante. Afferrò il collo del vaso e lo girò, poi lo tirò fuori dall’arcata sopraccigliare: dentro c’era l’occhio sanguinante dell’uomo. Mathilde cercò ancora di distogliere lo sguardo, ma non ci riuscì. Anna spinse la canna nell’orbita vuota e sparò.
Fu di nuovo il silenzio.
Di nuovo l’odore acre delle ceneri.
Le urne rovesciate, con i loro coperchi lavorati.
I fiori di plastica, sparsi e colorati.
Il corpo si era schiantato a qualche centimetro da Mathilde, cospargendola di sangue, di cervella e di frammenti d’osso. Un braccio toccava una delle sue gambe, ma non aveva la forza di spostarsi. I battiti del suo cuore erano così deboli che l’intervallo tra una pulsazione e l’altra le sembrava dovesse essere ogni volta l’ultimo.
«Dobbiamo andare via. I guardiani possono arrivare da un momento all’altro.»
Mathilde alza gli occhi.
Quello che vede le strazia il cuore.
Il volto di Anna è diventato di pietra. La polvere dei morti si è ammassata sui suoi lineamenti, disegnando screpolature e rughe. Per contrasto, i suoi occhi sono iniettati di sangue.
Mathilde pensa all’occhio strappato dal coccio di vetro: sta per vomitare.
Anna ha in mano una sacca sportiva, senza dubbio recuperata nel loculo.
«La droga è fottuta», dice. «Non abbiamo il tempo di piangerci sopra.»
«Chi sei tu? Santo cielo, chi sei?»
Anna posa il sacco a terra e lo apre:
«Non ce li avrebbe regalati, credimi.»
Afferra delle mazzette di dollari, li conta rapidamente poi li rimette dentro.
«Era il mio contatto a Parigi», riprende. «Quello che doveva distribuire la droga in Europa e mantenere i rapporti con la rete di vendita.»
Mathilde guarda il cadavere. Scorge una smorfia scura da cui spunta un occhio che fissa il soffitto. Vuole dargli un nome, a guisa di epitaffio:
«Come si chiamava?»
«Jean-Louis Schiffer. Era uno sbirro.»
«Uno sbirro era il tuo contatto?»
Anna non risponde. Prende dal fondo della sacca un passaporto e lo sfoglia rapidamente. Mathilde torna a guardare il corpo:
«Eravate… soci?»
«Lui non mi aveva mai vista, ma io conoscevo la sua faccia. Avevamo un segno di riconoscimento. Una spilla a forma di papavero. E anche una specie di parola d’ordine: le quattro lune.»
«Cosa significa?»
«Lascia perdere.»
Continua a rovistare, tenendo un ginocchio a terra. Tira fuori diversi caricatori per pistola automatica. Mathilde la osserva incredula. Il suo volto assomiglia a una maschera di fango secco; una figura rituale fissata nella creta. Anna non ha più niente di umano.
«Cosa farai adesso?»
La donna si alza e toglie dalla cintura una pistola: certamente l’automatica che ha trovato nello scomparto. Aziona una molla sul calcio ed espelle il caricatore vuoto. La sua sicurezza tradisce il lungo allenamento:
«Parto. Non c’è futuro per me a Parigi.»
«Dove vai?»
Innesta un nuovo caricatore.
«In Turchia.»
«In Turchia? Ma perché? Se vai laggiù ti troveranno.»
«Mi troveranno dovunque vada. Devo tagliare le radici.»
«Le radici?»
«Le radici dell’odio. L’origine della vendetta. Devo tornare a Istanbul. Devo sorprenderli. Loro non mi aspettano là.»
«Loro chi?»
«I Lupi grigi. Presto o tardi scopriranno la mia nuova faccia.»
«E allora? Ci sono mille posti dove nasconderti.»
«No. Quando scopriranno il mio nuovo volto sapranno dove scovarmi.»
«Perché?»
«Perché il loro capo l’ha già visto, anche se in una situazione completamente diversa.»
«Non ci capisco niente.»
«Te lo ripeto: dimentica tutto questo! Mi seguiranno fino al giorno della loro morte. Per loro non è un contratto come gli altri. Ne fanno una questione d’onore. Io li ho traditi. Ho tradito il mio giuramento.»
«Che giuramento? Di cosa stai parlando?»
Lei mette la sicura e infila l’arma dietro la schiena.
«Io sono una di loro. Sono una Lupa.»
Mathilde si sente mancare il fiato e sente il sangue che rallenta nelle vene. Anna si inginocchia e le cinge le spalle. Il suo viso non ha più colore, ma quando parla, tra le labbra si scorge la lingua rosa, quasi fluorescente.
Una bocca di carne cruda.
«Sei viva, ed è già un miracolo», dice lei con dolcezza. «Quando tutto sarà finito, ti scriverò. Ti darò i nomi, le circostanze, tutto. Voglio che tu conosca la verità, ma a distanza. Quando sarò sul punto di concludere e tu sarai al riparo.»
Mathilde non risponde, è stravolta. Per alcune ore, un’eternità, ha protetto quella donna come se fosse stata carne della sua carne. Ne ha fatto sua figlia, il suo bebè.
E in realtà è un’assassina.
Un essere violento e crudele.
Dal fondo del suo corpo si risveglia una sensazione atroce. Un vortice di melma in una vasca piena di marciume. L’umidità glauca dei suoi visceri rilasciati, aperti.
In quel momento, l’idea della gestazione le taglia il respiro.
Sì: quella notte ha partorito un mostro.
Anna si alza e prende la sua sacca.
«Ti scriverò. Te lo giuro. Ti spiegherò tutto.»
Sparisce, in un’eclisse di ceneri.
Mathilde resta immobile, gli occhi fissi sulla galleria vuota.
Lontano, le sirene del cimitero risuonano.
«Pronto. Sono Paul.»
Dall’altra parte del filo uno sbuffo, poi:
«Hai visto che ora è?»
Lui guardò l’orologio: appena le sei del mattino.
«Scusami. Non ho dormito.»
Lo sbuffare si trasformò in un sospiro di sfinimento.
«Che cosa vuoi?»
«Volevo solo sapere se Céline ha ricevuto le caramelle.»
La voce di Reyna diventò dura:
«Fatti curare.»
«Le ha ricevute sì o no?»
«E mi chiami alle sei per questo?»
Paul diede un pugno al vetro della cabina, il suo cellulare era ancora scarico.
«Dimmi solo se le ha fatto piacere. Non la vedo da dieci giorni!»
«Quello che le ha fatto piacere sono stati i tipi in uniforme che gliele hanno portate. Ha parlato solo di quello per tutto il giorno. Merda. Tutto un percorso ideologico per poi arrivare a questo punto. Degli sbirri come baby-sitter…»
Paul immaginava sua figlia in ammirazione davanti ai galloni d’argento, con gli occhi che le brillavano di fronte alle merendine che gli agenti le stavano dando. L’immagine gli scaldò il cuore. Di colpo, con un tono allegro, promise:
«Ti chiamo tra due ore, prima che lei esca per andare a scuola.»
Reyna riagganciò senza dire una parola.
Uscì dalla cabina e inspirò una lunga boccata d’aria notturna. Si trovava in piace du Trocadéro, tra i musei dell’Uomo e della Marina e il teatro di Chaillot. Una pioggia fine cadeva sullo spiazzo centrale, circondato da staccionate, segno evidente dei lavori di restauro.
Seguì il corridoio formato dalle tavole di legno e attraversò la spianata. L’acquerugiola formava sul suo viso uno strato come d’olio. La temperatura, decisamente troppo dolce per la stagione, lo faceva sudare sotto il suo parka. Quel tempo appiccicoso si accordava bene con il suo umore. Si sentiva sporco, consunto, svuotato; un gusto di cartapesta sulla lingua.
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