Jean-Christophe Grangé - L'impero dei lupi

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Anna Heymes, moglie di un alto funzionario parigino, dopo un intervento di chirurgia estetica soffre di crisi di amnesia e di terribili allucinazioni. Alla ricerca della sua identità e del suo vero volto, incontra Paul, il giovane commissario che sta indagando sull’atroce omicidio di tre ragazze turche impiegate in un laboratorio clandestino. Paul ha chiesto l’aiuto di un poliziotto in pensione dal passato turbolento, Jean-Louis Schiffer, creando così una coppia eccentrica ma tenacissima.
Inizia così una vera e propria discesa agli inferi: un viaggio nei labirinti della mente dei protagonisti, ma anche in un mondo popolato da feroci assassini e trafficanti di immigrati
, oltre che da bande terroriste che vanno dai guerriglieri no-global ai Lupi grigi turchi.

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«Cos’è successo dopo? Come hanno fatto i poliziotti a trovarti? Erano al corrente della droga?»

«Non è andata così. La scena è ancora confusa, ma mi pare di intravederla… In novembre io lavoravo in una tintoria. Una specie di lavanderia sotterranea in un hammam. Un posto che non immagini, o almeno non immagini che sia lì a un chilometro da casa tua. Una notte sono arrivati.»

«I poliziotti?»

«No, i turchi mandati dai miei capi. Sapevano che mi ero nascosta là. Qualcuno doveva avermi tradito, non so… Ma, evidentemente, non sapevano che avevo cambiato faccia. Sotto i miei occhi hanno rapito una ragazza che mi somigliava. Una certa Zeynep qualche cosa… Misericordia, quando ho visto entrare quegli assassini… Mi ricordo solo un grande lampo di paura.»

Mathilde cercò ancora di ricostruire la storia, di colmare le lacune:

«Come sei arrivata da Charlier?»

«Non ho dei ricordi precisi in proposito. Ero in stato di choc. Credo che gli sbirri mi abbiano trovato nel bagno turco. Rivedo un commissariato, un ospedale… In un modo o nell’altro Charlier è stato informato della mia esistenza. Un’operaia colpita da amnesia. Senza statuto legale in Francia. La cavia perfetta.»

Anna parve soppesare la propria ipotesi, poi mormorò:

«C’è un’ironia incredibile nella mia storia. I poliziotti non hanno mai saputo chi ero veramente. Così, loro malgrado, mi hanno protetta dagli altri.»

Mathilde cominciava a provare dolore al ventre: la paura, accentuata ancor di più dalla stanchezza. La vista si oscurava. Le forme bianche della strada diventavano dei gabbiani, strani uccelli dal volo convulso.

In quel momento apparve il cartello che indicava la tangenziale. Parigi era all’orizzonte. Si concentrò sulla striscia d’asfalto e proseguì:

«Chi sono questi uomini che ti stanno cercando?»

«Dimentica tutto questo. Te lo ripeto: meno sai, meglio è.»

«Ti ho aiutata», replicò lei a denti stretti. «Ti ho protetta. Parla! Voglio sapere la verità.»

Anna esitò ancora. Era il suo mondo, un mondo che non aveva mai svelato a nessuno.

«La mafia turca ha una particolarità», finì per dire. «Utilizza killer che provengono dal fronte politico. Si chiamano Lupi grigi. Sono dei nazionalisti, fanatici di estrema destra che credono nel ritorno della Grande Turchia. Terroristi che hanno passato la loro infanzia nei campi di addestramento. Inutile dirti che, rispetto a loro, gli sbirri di Charlier sembrano dei boy-scout armati di coltellino.»

I pannelli blu aumentavano. PORTE DE GLIGNANCOURT. PORTE DE LA CHAPELLE. Mathilde aveva ormai una sola idea in testa: abbandonare quella bomba alla prima stazione di taxi. Tornare al suo appartamento, ritrovare le sue comodità, la sua sicurezza. Voleva dormire per venti ore di seguito e svegliarsi il giorno dopo dicendo: è stato solo un incubo.

Prese l’uscita della Chapelle e disse:

«Resto con te.»

«No. Impossibile. Io devo fare una cosa.»

«Cosa?»

«Recuperare il mio carico.»

«Vengo con te.»

«No.»

Dentro di sé, sentì che stava diventando più dura. Più orgoglio che coraggio.

«Dov’è? Dov’è la droga?»

«Al cimitero Père-Lachaise.»

Mathilde lanciò un’occhiata ad Anna; le sembrò distrutta, ma anche più dura, più densa: un cristallo di quarzo compresso sui suoi strati di verità…

«Perché proprio là?»

«Venti chili. Bisognava trovare un deposito.»

«Non vedo perché il cimitero.»

Anna sorrise d’un sorriso sognante, quasi rivolto a sé stessa.

«Un po’ di polvere bianca in mezzo alla polvere grigia…»

Si fermarono a un semaforo rosso. Dopo quell’incrocio, rue de la Chapelle diventava rue Marx-Dormoy. Mathilde ripeté più forte:

«Perché proprio al cimitero?»

«È verde. In place de la Chapelle prendi in direzione Stalingrad.»

54.

La città dei morti.

Viali ampi e rettilinei, bordati di alberi imponenti che sapevano tenere il loro rango. Blocchi massicci, monumenti, tombe lisce e nere.

Nella notte chiara apparivano le ampie aiuole: lusso, opulenza.

Nell’aria c’era un profumo natalizio; tutto sembrava cristallizzato, avviluppato dalla cupola della notte, come quelle piccole sfere che, capovolte, fanno cadere la neve sul paesaggio.

Avevano attaccato la fortezza attraverso l’entrata di rue Père-Lachaise, vicino a place Gambetta. Anna aveva guidato Mathilde lungo la grondaia che fiancheggiava il cancello, poi tra le punte di ferro che sormontavano il muro di cinta. La discesa dall’altra parte era stata ancora più facile, perché lungo il muro passavano dei cavi elettrici.

Ora stavano seguendo il vialetto dei Combattenti Stranieri. Sotto la luna, le tombe e i loro epitaffi si disegnavano con precisione. Un bunker dedicato ai morti cecoslovacchi della grande guerra; un monolite bianco ricordava la morte dei soldati belgi, una stele colossale dai molteplici angoli, nello stile di Vasarely, rendeva omaggio ai defunti armeni…

Quando Mathilde scorse, in alto sulla collinetta, il grande edificio con i due camini, capì. Un po’ di polvere bianca in mezzo alla polvere grigia. Il tempio crematorio. Con uno strano cinismo, Anna la trafficante aveva nascosto il suo carico di eroina in mezzo alle urne cinerarie.

Nella luce notturna, quella costruzione, contornata da quattro lunghi edifici, ricordava una moschea, crema e oro, guarnita con una larga cupola e dominata dai suoi camini che parevano minareti.

Attraversarono dei giardini allineati e delimitati da siepi squadrate e fitte. Al di là, Mathilde distingueva le gallerie costellate di scomparti e di fiori. Le venne da pensare a pagine di marmo incrostate di scritte e di sigilli colorati.

Tutto era deserto.

Nessun guardiano in vista.

Anna raggiunse il fondo del parco, dove la scala di una cripta sprofondava al di sotto dei cespugli. Alla fine degli scalini c’era un cancello di ghisa, chiuso a chiave. Cercarono una via d’entrata. Come un’ispirazione, un battito d’ali fece loro alzare gli occhi: dei piccioni si stavano agitando, rincantucciati contro la griglia di una finestrella posta a un paio di metri d’altezza.

Anna si tirò indietro per valutare le dimensioni del passaggio. Poi, introdusse i piedi negli ornamenti di metallo del cancello e si arrampicò. Qualche istante più tardi, Mathilde sentì il raschiare della griglia strappata e il breve schiaffo di un vetro rotto.

Senza neppure riflettere, prese anche lei lo stesso cammino.

Giunta in alto si infilò nella finestra. Toccò terra nel momento in cui Anna premette l’interruttore.

Il santuario era immenso. Disposte intorno a un pozzo quadrato, le gallerie diritte, scavate nel granito, si allungavano a perdita d’occhio. A intervalli regolari, delle lampade diffondevano una debole luce.

Si avvicinò alla balaustra del pozzo: sotto di loro c’erano ancora tre livelli e un gran numero di gallerie. Al fondo dell’abisso, una minuscola vasca di ceramica. Sembrava di essere nel cuore di una città sotterranea costruita intorno a una fonte sacra.

Anna prese una delle due scale. Mathilde la seguì. Man mano che scendevano, il brontolio del sistema di aerazione si faceva più forte. A ogni pianerottolo, la sensazione del tempio, della tomba gigante diveniva più schiacciante.

Al secondo piano interrato, Anna imboccò una galleria sulla destra, punteggiata di scomparti e pavimentata con piastrelle bianche e nere. Camminarono a lungo. Mathilde osservava la scena con uno strano distacco. Di tanto in tanto, nel tenue chiarore delle lampade, notava qualche dettaglio. Un mazzo di fiori freschi posato a terra, avvolto nella stagnola. Un ornamento, una decorazione che distingueva un certo scomparto cinerario. Come il volto di quella donna di colore, i cui capelli ricci parevano affiorare dalla superficie del marmo. L’epitaffio diceva: TU ERI SEMPRE CON ME. TU SARAI SEMPRE CON ME. Oppure, più in là, quella foto di bimba, dal bordo grigio, incollata su una semplice lastra di gesso. Sopra, avevano scritto a pennarello: LEI NON È MORTA, MA DORME. SAN LUCA.

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