«Hai una sigaretta?» chiese di rimando, con una voce che cercava il proprio timbro.
Mathilde le porse una Marlboro. Seguì con lo sguardo la mano fragile che l’afferrava. Il disegno all’henné tornò in sovrimpressione. Fiori, picchi e serpenti si avvolgevano intorno a un pugno chiuso. Un pugno tatuato chiuso su di una pistola automatica…
Da dietro il fumo della sua sigaretta, la donna dalla frangia nera, mormorò:
«Preferivo essere Anna Heymes.»
La stazione ferroviaria di Falmières, a dieci chilometri a ovest di Brest, era un edificio solitario, posto lungo i binali in aperta campagna. Una baracca in pietra molare piazzata tra l’orizzonte nero e il silenzio della notte. Tuttavia, con la sua piccola lanterna gialla e la sua pensilina di vetro, aveva un aspetto rassicurante. Il tetto di tegole, i muri divisi in due fasce, blu e bianca, gli steccati di legno le davano un’aria da giocattolo, da plastico per trenini elettrici.
Mathilde fermò l’auto nel parcheggio.
Eric Ackermann aveva chiesto di essere lasciato a una stazione. «Una qualsiasi. Me la caverò.»
Da quando avevano lasciato l’ospedale, nessuno aveva più detto una parola. Ma la qualità del silenzio era cambiata. L’odio, la collera, la diffidenza erano cadute; i tre fuggitivi ora condividevano una strana forma di complicità.
Mathilde spense il motore. Nel retrovisore vide il volto livido del neurologo seduto sul sedile posteriore. Un’autentica lama di nichel. Uscirono tutti insieme.
Fuori si era alzato il vento. Raffiche violente si abbattevano rumorosamente sulla strada. Lontano, nuvole appuntite si allontanavano scoprendo una luna purissima, come un grosso frutto dalla polpa blu.
Mathilde si chiuse il cappotto. Avrebbe pagato chissà quanto per un tubetto di crema idratante. Le sembrava che ogni ventata le seccasse la pelle, le scavasse un po’ più profondamente le rughe del volto.
Camminarono fino alla recinzione fiorita, sempre senza dire una parola. La situazione le fece pensare a uno scambio di ostaggi, al tempo della guerra fredda, su un ponte della vecchia Berlino: nessuna possibilità di dirsi addio.
All’improvviso, Anna chiese:
«E Laurent?»
Era una domanda che aveva già fatto, prima, nel parcheggio della piace d’Anvers. Era l’altro versante della sua storia: la prova di un amore che persisteva, malgrado il tradimento, le menzogne, la crudeltà.
Ackermann pareva troppo spossato per mentire:
«Onestamente, credo che ci siano poche possibilità che sia ancora vivo. Charlier non lascerà alcuna traccia dietro di sé. E Heymes non è affidabile. Un tipo capace di crollare al primo interrogatorio o addirittura di consegnarsi da solo. Dopo la morte della moglie…»
Il neurologo si fermò. Per un attimo Anna sembrò tener testa al vento, poi le sue spalle cedettero. Si girò senza dire nulla e tornò in macchina.
Mathilde guardò per l’ultima volta lo spilungone dai capelli color carota perso nel suo impermeabile.
«E tu?» chiese, quasi con compassione.
«Vado in Alsazia. Vado a perdermi nella massa degli “Ackermann”.»
Sogghignò, con un verso da anatra, e con un lirismo esagerato, aggiunse:
«Poi troverò un’altra destinazione. Sono un nomade io!»
Mathilde non rispose. Lui continuava a dondolarsi, con la sua borsa stretta al petto. Proprio come faceva all’università. Ackermann schiuse le labbra, esitò, poi sussurrò:
«In ogni caso, grazie.»
Armò l’indice per un saluto da cow-boy, poi si girò verso la stazione isolata tenendo le spalle contro il vento. Dove andava di preciso? «Troverò un’altra destinazione. Sono un nomade io!»
Parlava di un paese terreno o di una nuova regione del cervello?
«La droga.»
Mathilde era concentrata sulle strisce bianche dell’autostrada che scintillavano davanti a lei come certi plancton che brillano la notte sotto la prua delle navi. Fece passare qualche secondo, poi diede un’occhiata alla sua passeggera. Un volto di gesso, liscio, indecifrabile.
«Sono una trafficante di droga», riprese Anna con un tono neutro. «Quello che da voi si chiama “un corriere”.»
Mathilde annuì, come se in fondo si attendesse quella rivelazione. In effetti, ormai si attendeva qualunque cosa. Non c’era più limite alla verità. Quella notte, ogni nuovo passo era una vertigine.
Si concentrò ancora sulla strada. Passarono dei lunghi istanti prima che domandasse:
«Che genere di droga? Eroina? Cocaina? Anfetamina? Cosa?»
Le ultime sillabe le aveva pronunciate quasi gridando. Tamburellò con le dita sul volante. Doveva calmarsi. Immediatamente.
La voce riprese:
«Eroina. Esclusivamente eroina. Diversi chili ogni viaggio. Mai di più. Dalla Turchia all’Europa. Addosso. Nei bagagli. O con altri mezzi. Ci sono degli accorgimenti, dei trucchi. Il mio lavoro consisteva nel conoscerli. Tutti.»
Mathilde aveva la gola così secca che ogni respiro era una sofferenza.
«Per… per chi lavoravi?»
«Le regole sono cambiate, Mathilde. Meno cose sai, meglio sarà per te.»
Anna aveva assunto un tono strano, quasi superiore.
«Qual è il tuo vero nome?»
«Nessun vero nome. Anche questo faceva parte del mestiere.»
«Come facevi? Dammi dei dettagli.»
Anna le oppose un nuovo silenzio, pesante come marmo. Poi, dopo un po’, riprese:
«Non era una vita esaltante. Marcire negli aeroporti. Conoscere i migliori scali. Le frontiere meno controllate. Le coincidenze più rapide o, al contrario, quelle più complicate. Le città dove le valige ti aspettano sulla pista. Le dogane dove perquisiscono e quelle dove non perquisiscono. La topografia dei depositi bagagli e dei luoghi di transito.»
Mathilde ascoltava, ma soprattutto afferrava la grana della voce: Anna non aveva mai parlato così schiettamente.
«Un’attività da schizofrenica. Parlare continuamente lingue diverse, rispondere a diversi nomi, possedere differenti nazionalità. E avere come casa solo il comfort standard delle sale VIP degli aeroporti. E sempre, ovunque, la paura.»
Mathilde sbatté gli occhi per scacciare la sonnolenza. Il suo campo visivo diventava meno nitido. Le strisce della strada oscillavano, si frastagliavano… Chiese ancora:
«Da dove vieni esattamente?»
«Non ho ricordi precisi. Ma torneranno, ne sono sicura. Per il momento mi limito al presente.»
«Ma cos’è successo? Come hai fatto a ritrovarti a Parigi nei panni di un’operaia? Perché hai cambiato faccia?»
«La storia classica. Ho voluto tenere per me l’ultimo carico. Ho cercato di fregare i miei capi.»
Si fermò. Ogni ricordo sembrava costarle uno sforzo enorme.
«Era nel giugno dell’anno scorso. Dovevo consegnare la droga a Parigi. Un carico speciale. Molto prezioso. Avevo un contatto, ma ho scelto un’altra strada. Ho nascosto l’eroina e ho consultato un chirurgo estetico. Almeno credo… A quel punto potevo fare quello che volevo… Ma durante la mia convalescenza è successo qualcosa che non avevo previsto. Che nessuno aveva previsto: l’attentato dell’11 settembre. Da un giorno all’altro le dogane sono diventate delle muraglie. Perquisizioni e controlli ovunque. Non potevo certo ripartire con la droga come avevo previsto. Né potevo lasciarla a Parigi. Dovevo restare, dovevo aspettare che la situazione si calmasse, ben sapendo che i miei capi avrebbero fatto di tutto per ritrovarmi… Mi sono nascosta dove, in linea di massima, nessuno cercherebbe una donna turca che vuole sparire: tra i turchi. Tra le operaie clandestine del decimo arrondissement. Avevo un nuovo volto e una nuova identità. Nessuno poteva scovarmi.»
La voce si spense, come fosse esaurita. Mathilde cercò di ravvivare la fiamma:
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