Quei vestiti erano di foggia occidentale, ma le loro linee, i loro colori e soprattutto i loro abbinamenti ricordavano l’aspetto di quei contadini turchi che portavano ancora i pantaloni a sbuffo malva e camicioni color pistacchio o color limone. Sentì crescere in sé un desiderio sinistro, accentuato ancor più dall’idea di messa a nudo, di umiliazione, di povertà asservita. Il corpo pallido che immaginava sotto quei tessuti lo eccitava terribilmente.
Passò alla biancheria intima. Un reggiseno color carne. Una paio di culottes nere, lise, chiazzate per l’usura. La taglia di quegli indumenti lasciava immaginare misure da adolescente. Pensò ai tre cadaveri: anche larghe, seni pesanti. La donna non si era accontentata di cambiare faccia: aveva scolpito il suo corpo fino alle ossa.
Proseguì la ricerca. Scarpe bucate, collant consunti, e un cappotto di montone liso come il resto. Le tasche erano state svuotate. Tastò il fondo della scatola nella speranza che il loro contenuto fosse stato raggruppato altrove. Un sacchetto di plastica confermò la sua ipotesi. Un mazzo di chiavi, un carnet di biglietti, prodotti di bellezza importati da Istanbul…
Si dedicò al mazzo di chiavi. Le chiavi erano la sua passione. Ne conosceva di tutti i tipi: chiavi piatte, a diamante, a pompa… Ed era egualmente esperto di serrature. Quei meccanismi gli ricordavano le articolazioni umane: quelle che lui amava storcere e controllare.
Osservò le due chiavi nell’anello. Una apriva una serratura semplice; quasi certamente quella di un ostello, di una camera d’albergo o di un appartamento miserabile, occupato ormai da tempo da altri turchi. La seconda, una chiave piatta, era senza dubbio quella del chiavistello superiore della stessa porta,
Roba senza interesse.
Schiffer soffocò una bestemmia: il suo bottino era ridicolo. Quegli oggetti, quei vestiti, disegnavano il profilo di un’operaia anonima. Persino troppo anonima. Tutto ciò sapeva di travestimento, di caricatura.
Era certo che Sema Gokalp avesse un nascondiglio. Quando si è capaci di cambiare faccia, di perdere venti chili, di adottare volontariamente l’esistenza sotterranea di una schiava, si mette sempre in salvo qualcosa.
Schiffer si ricordò delle parole di Beauvanier. Abbiamo trovato il suo passaporto cucito nella gonna. Tastò ogni vestito. Si soffermò sulla fodera del cappotto; lungo l’orlo inferiore, le sue dita si fermarono su un rigonfiamento. Una gobba dura, allungata, dentellata.
Strappò la stoffa e scosse il cappotto.
Nella sua mano cadde una chiave.
Una chiave a gambo forato, con sopra inciso un numero: 4C 32.
«Scommetto cento contro uno che si tratta di un armadietto al deposito bagagli», pensò.
«No, non è di un deposito bagagli. Adesso per quello si usano le combinazioni.»
Cyril Distras era un fabbro geniale, specializzato in serrature. Una volta, Jean-Louis Schiffer aveva scoperto il suo portafoglio sul luogo di un furto con scasso dove una cassaforte ritenuta inviolabile era stata aperta con grande virtuosismo. Allora era andato a cercare il proprietario della carta d’identità e aveva trovato quel giovane biondo, irsuto e miope. Rendendogli i documenti lo aveva avvisato: «Con un nome così, dovresti fare più attenzione.» Poi Schiffer aveva chiuso un occhio sul furto, in cambio di una litografia originale di Bellmer.
«Allora cos’è?»
«Un self-stockage.»
«Un cosa?»
«Un posto dove uno deposita i suoi mobili e le sue cose.»
Da quella notte, Distras non rifiutava nulla a Schiffer. Apertura di porte senza mandato, forzatura di serrature per accertare la flagranza di reato, scasso di casseforti per scovare documenti compromettenti. Quel ladro era una splendida alternativa alle autorizzazioni legali.
«Non riesci a dirmi niente di più?»
Distras inclinò la chiave sotto la lampada. Era uno scassinatore davvero unico: appena si avvicinava a una serratura, avveniva il miracolo. Una vibrazione, un tocco. Era un mistero che si metteva al lavoro. Schiffer non si stancava di osservarlo all’opera. Gli sembrava di scoprire un lato nascosto della natura. L’essenza stessa di un dono inspiegabile.
«Surger», disse l’altro. «Si vedono le lettere in filigrana sul taglio.»
«Conosci il posto?»
«Lo credo bene. Ho parecchia roba nascosta laggiù. È accessibile giorno e notte.»
«Dov’è?»
«Château-Landon. Rue Girard.»
Schiffer inghiottì la saliva. Gli parve bollente.
«Per entrare bisogna digitare un codice?»
«AB 756. La tua chiave ha il numero 4C 32. Quarto livello. Il piano dei minibox.»
Cyril Distras alzò la testa e si sistemò gli occhiali. La sua voce divenne cantilenante:
«Il piano dei piccoli tesori nascosti…»
L’edificio dominava i binari della Gare de l’Est, imponente e solitario come un cargo quando entra in porto. Con i suoi quattro piani, l’immobile dava l’impressione di esser stato rinnovato e ridipinto da poco. Un’isola di pulizia dove custodire beni in transito.
Schiffer superò la prima barriera e attraversò il parcheggio.
Erano le due del mattino e si aspettava di veder spuntare da un momento all’altro una sentinella in tuta nera con il marchio SURGER, con un cane feroce e un manganello elettrico.
Invece, non venne nessuno.
Compose il codice e superò la porta a vetri. In fondo all’atrio, sprofondato in uno strano alone rosso, vide un corridoio in cemento punteggiato di serrande metalliche; ogni venti metri, l’asse principale era attraversato da corsie laterali che lasciavano indovinare un labirinto di compartimenti.
Continuò dritto avanti a sé, sotto le luci d’emergenza, fino a raggiungere, al fondo, una scala. Ogni suo passo su quel cemento grigio provocava un rumore sordo, quasi impercettibile. Schiffer assaporava quel silenzio, quella solitudine, quella miscela di tensione e potere tipica dell’intruso.
Arrivò al quarto livello e si fermò. Lì si apriva un altro, corridoio, dove i box erano più fitti. Il piano dei piccoli tesori nascosti. Schiffer frugò nella tasca e tirò fuori la chiave. Lesse i numeri sulle saracinesche, si perse, infine trovò il 4C 32.
Prima di azionare la serratura, rimase un attimo immobile. Poteva quasi sentire, dietro la paratia, la presenza dell’Altra, di colei che non aveva ancora nome.
Si inginocchiò, girò la chiave, poi, con un movimento secco, alzò la serranda di ferro.
Nella penombra, gli si presentò davanti una cella di un metro per un metro. Afferrò la torcia elettrica che aveva preso a Distras e vide, al fondo, uno scatolone.
L’Altra era sempre più vicina.
Aprì la scatola, si mise la torcia tra i denti e cominciò a frugare.
Dei vestiti. Uniformemente scuri, firmati da grandi stilisti. Issey Miyake. Helmut Lang. Fendi. Prada… Le sue mani incontrarono della biancheria intima. Un chiarore nero: fu questa l’idea che nacque in lui. Il tessuto era d’una dolcezza, d’una sensualità quasi indecente. I pizzi sembravano fremere al contatto con le dita… Questa volta, niente desiderio, niente erezione: la raffinatezza, l’orgoglio subdolo di quella lingerie gli toglievano la voglia.
Proseguì e scovò, avvolta in un pezzo di seta, una nuova chiave.
Una chiave strana, rudimentale, a gambo piatto.
Nuovo lavoro per Distras.
Gli mancava un’ultima certezza.
Tastò ancora, sollevò, rovesciò.
All’improvviso, una spilla d’oro a forma di papavero entrò nel fascio luminoso della lampada, come uno scarabeo magico. Posò la lampada bagnata di saliva, sputò, poi, nell’oscurità, mormorò:
« Allah sukur! Sei tornata.»
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