«Merda…»
«È proprio come dici tu. C’è una donna che sta correndo per Parigi, con due identità, due gruppi di bastardi che le stanno alle calcagna e noi in mezzo. Secondo me, lei sta investigando su sé stessa. Sta cercando di sapere chi è veramente.»
Una nuova pausa all’altro capo del filo.
«Allora cosa facciamo?»
«Io ho fatto un patto con Charlier. L’ho convinto del fatto che io sono la persona più qualificata per scovare quella donna. Una ragazza turca è il mio campo. Mette la faccenda nelle mie mani per questa notte. Non sa che pesci pigliare. La sua operazione è illegale. Puzza di marcio lontano un chilometro. Ho il dossier della nuova Sema e due piste. La prima è per te, se tu sei ancora della partita.»
Sentì un fruscio di stoffe e di carta. Nerteaux stava tirando fuori il suo bloc-notes.
«Mi dica.»
«La chirurgia estetica. Sema si è affidata a uno dei migliori chirurghi plastici di Parigi. Dobbiamo ritrovarlo, quel tipo ha avuto un contatto con il vero bersaglio. Prima che cambiasse faccia. Prima che le facessero il lavaggio del cervello. Senza dubbio è l’unico in tutta Parigi che possa dirci qualcosa sulla vera donna che i Lupi grigi stanno cercando. Capisci o no?»
Nerteaux non rispose subito, stava probabilmente scrivendo.
«La lista comprenderà centinaia di nomi.»
«Niente affatto. Bisogna interrogare i migliori, i virtuosi. E tra loro, quelli senza scrupoli. Rifare totalmente un volto non è mai un’operazione innocente. Hai tutta la notte per trovare il tipo. Alla velocità a cui stanno andando le cose, tra poco non saremo soli a seguire questa pista.»
«Allude alla gente di Charlier.»
«No. Charlier non sa neppure che Sema ha cambiato aspetto. Sto parlando dei Lupi grigi. È la terza volta che si sbagliano. Finiranno per capire che quella che cercano non è la faccia giusta. Penseranno alla chirurgia estetica e cercheranno il medico. Ci ritroveremo sullo stesso cammino, me lo sento. Ti lascio il dossier della ragazza con la foto del suo nuovo volto in rue de Nancy. Passa a prenderlo e comincia il lavoro.»
«Do il ritratto alle pattuglie?»
A Schiffer vennero i sudori freddi:
«Assolutamente no. Devi mostrarlo solo ai medici, insieme al tuo identikit, capito?»
Il silenzio saturò nuovamente la linea.
Assomigliavano sempre più a dei sommozzatori persi negli abissi.
«E lei?» chiese Nerteaux.
«Io mi occupo della seconda pista. I ragazzi dell’antiterrorismo hanno dimenticato di distruggere i vecchi vestiti di Sema. Questo è un colpo di culo. Forse quegli abiti contengono un dettaglio, un indizio che ci condurrà alla donna iniziale.»
Guardò l’orologio: mezzanotte. Il tempo stringeva, ma voleva fare un’ultima verifica.
«Da parte tua niente di nuovo?»
«Ho messo il quartiere turco a ferro e fuoco, ma per il momento…»
«L’indagine di Naubrel e Matkowska non ha dato risultati?»
«Ancora niente.»
Nerteaux sembrava stupito da quella domanda. Il ragazzo probabilmente pensava che lui non fosse interessato alla pista delle camere iperbariche. Ma aveva torto. Fin dall’inizio, quella storia dell’azoto lo aveva intrigato.
Quando Scarbon aveva parlato di quella questione, aveva detto: «Io non sono un sub.» Ma Schiffer lo era. Aveva passato gli anni della sua giovinezza a sondare il Mar Rosso e il Mar della Cina. Aveva persino pensato di lasciare tutto e aprire una scuola di immersione nel Pacifico.
Sapeva dunque che l’alta pressione non provoca solo problemi di gas nel sangue, ma anche effetti allucinogeni, uno stato di delirio che tutti i sommozzatori conoscono con il nome di ebbrezza della profondità.
All’inizio dell’inchiesta, quando pensavano di dover inseguire un serial killer, Schiffer aveva fatto fatica a collocare quell’indizio: non capiva perché un assassino capace di massacrare una vagina con delle lame da rasoio perdesse poi del tempo per produrre bolle d’azoto nel sangue delle sue vittime. Non quadrava. Per contro, nell’ambito di un interrogatorio, quel delirio della profondità assumeva un senso.
Uno dei fondamenti della tortura consisteva nell’alternare caldo e freddo. Rifilare delle sberle, poi offrire una sigaretta. Dare delle scariche elettriche, poi proporre un panino. Era quasi sempre in quei momenti di calma che la gente crollava.
Con la camera iperbarica, i Lupi non avevano fatto altro che applicare quell’alternanza, spingendola al parossismo. Dopo i peggiori tormenti, avevano sottoposto la loro vittima a un rapido rilassamento, un’euforia improvvisa provocata dalla sovrapressione. Sicuramente speravano che la violenza del contrasto avrebbe fatto cedere la loro prigioniera, o forse credevano che il delirio avrebbe funzionato come siero della verità…
Dietro quella tecnica da incubo, Schiffer riconosceva il segno implacabile di un maestro di cerimonia. Un professionista della tortura.
Chi?
Scacciò la propria paura e disse:
«Di camere iperbariche a Parigi non devono essercene molte.»
«Quelli della polizia giudiziaria hanno visitato tutti i posti che potevano ospitare quel tipo di macchinario. Hanno interrogato gli industriali che effettuano test di resistenza. Siamo in un vicolo cieco.»
Schiffer sentiva un turbamento nella voce di Nerteaux. Gli stava nascondendo qualcosa? Non aveva tempo per approfondire.
«E le maschere antiche?» riprese.
«Anche questo la interessa?»
Lo scetticismo di Paul raddoppiò.
«Visto il contesto», replicò Schiffer, «mi interessa tutto. Uno dei Lupi potrebbe avere un’ossessione, una forma particolare di follia. A che punto sei su quella questione?»
«A un punto morto. Non ho avuto il tempo di avanzare. Non so neppure se il mio agente ha trovato altri siti archeologici e…»
Tagliò corto e concluse:
«Faremo il punto tra due ore. E trova il modo di ricaricare il tuo cellulare.»
Riagganciò. Per un attimo gli passò davanti agli occhi l’immagine di Nerteaux. Capelli da indiano, occhi color nocciola. Uno sbirro dal volto troppo fine, che non si radeva e si vestiva di nero per darsi un’aria da duro. Ma anche un poliziotto nato, malgrado la sua ingenuità.
Si rese conto che, in fondo, voleva bene a quel ragazzo. Si chiese se per caso non si stava rammollendo, se aveva fatto bene a portarlo dentro a quella che era diventata la sua indagine. Gli aveva detto troppe cose?
Uscì dalla cabina e fece segno a un taxi.
No. Aveva tenuto per sé la cosa più importante.
Salì sull’auto e diede l’indirizzo del Quai des Orfèvres.
Ormai sapeva chi era la preda e perché i Lupi grigi la cercavano.
Per la semplice ragione che lui stesso la stava braccando da dieci mesi.
Una scatola rettangolare di legno bianco, con sopra il sigillo della repubblica in cera rossa. Schiffer soffiò via la polvere dal coperchio e si disse che le sole prove dell’esistenza di Sema Gokalp erano ora in quella specie di bara.
Tirò fuori il suo coltellino svizzero, infilò la lama sotto il sigillo, fece saltare la crosta rossa e sollevò l’assicella. Ne uscì un odore di muffa. Come vide i vestiti, fu assalito da un’assoluta certezza: lì dentro c’era qualcosa per lui.
Istintivamente gettò uno sguardo alle sue spalle. Era nei sotterranei del Palazzo di Giustizia, nella cabina dalle tende luride, dove i detenuti appena liberati controllano gli effetti personali che vengono loro restituiti.
Il luogo ideale per esumare un cadavere.
Come prima cosa trovò una blusa bianca e una charlotte di carta pieghettata: l’uniforme regolamentare delle operaie di Gurdilek. Poi degli abiti civili: una lunga gonna verde pallido, un cardigan fatto all’uncinetto, una camicetta blu ardesia con il colletto tondo. Delle stoffe da quattro soldi che venivano direttamente dai magazzini TATI.
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