Jean-Christophe Grangé - L'impero dei lupi

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Anna Heymes, moglie di un alto funzionario parigino, dopo un intervento di chirurgia estetica soffre di crisi di amnesia e di terribili allucinazioni. Alla ricerca della sua identità e del suo vero volto, incontra Paul, il giovane commissario che sta indagando sull’atroce omicidio di tre ragazze turche impiegate in un laboratorio clandestino. Paul ha chiesto l’aiuto di un poliziotto in pensione dal passato turbolento, Jean-Louis Schiffer, creando così una coppia eccentrica ma tenacissima.
Inizia così una vera e propria discesa agli inferi: un viaggio nei labirinti della mente dei protagonisti, ma anche in un mondo popolato da feroci assassini e trafficanti di immigrati
, oltre che da bande terroriste che vanno dai guerriglieri no-global ai Lupi grigi turchi.

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Mathilde Wilcrau non aveva mai visto così da vicino una camera a positroni.

Dall’esterno, l’apparecchio assomigliava a un normale macchinario per la TAC: un ampio cilindro bianco, dentro al quale si incastrava una barella d’acciaio dotata di strumenti di misura e d’analisi. Un apposito supporto sorreggeva la flebo, mentre su un carrello lì vicino erano allineate siringhe sottovuoto e flaconi di plastica. Tutto quell’insieme disegnava, nella penembra della sala, una strana costruzione, un grandioso geroglifico.

Per scovare una macchina del genere, i fuggitivi avevano dovuto recarsi al Centro ospedaliero e universitario di Reims, a cento chilometri da Parigi. Eric Ackermann conosceva il direttore del servizio di radiologia. Lo aveva chiamato a casa e lui si era subito precipitato per accoglierlo. Sembrava un ufficiale di frontiera che avesse ricevuto all’improvviso la visita di un importante generale.

Erano sei ore che Ackermann stava lavorando intorno all’apparecchio. Nella cabina di comando, Mathilde Wilcrau lo osservava all’opera. Anna era sdraiata, con la testa nella macchina e lui, chino sul suo corpo, faceva delle iniezioni, regolava la flebo, proiettava delle immagini su uno schermo collocato nell’arcata superiore del cilindro. E soprattutto parlava.

Guardandolo agitarsi come una fiamma, attraverso il vetro, Mathilde non poteva impedirsi di rimanere affascinata. Quel tipo alto, immaturo, al quale non avrebbe neppure prestato la propria auto, aveva portato a termine, in un contesto di estrema violenza politica, un esperimento cerebrale unico. Aveva superato una soglia decisiva per la conoscenza e il controllo del cervello.

Un passo in avanti che, in altre circostanze, avrebbe potuto aprire nuove possibilità terapeutiche. Roba da far scrivere il proprio nome in tutti i manuali di neurologia e di psichiatria. Chissà se per il metodo Ackermann ci sarebbe stata una seconda possibilità?

Il rosso continuava ad agitarsi, accompagnandosi con movimenti nervosi. Mathilde sapeva leggere bene quei gesti. Al di là dell’andamento febbrile della seduta, Ackermann era drogato fino al collo. Dipendeva dalle anfetamine e dagli altri eccitanti. D’altra parte, appena arrivato, aveva fatto «rifornimento» alla farmacia dell’ospedale. Quelle droghe di sintesi riflettevano esattamente ciò che lui era: un uomo dalla mente bruciata, che aveva vissuto per la chimica e grazie alla chimica…

Le sei.

Cullata dal ronzio dei computer, Mathilde si era addormentata più volte. Quando si risvegliava cercava di riordinare le idee. Invano. C’era un pensiero dominante che l’accecava, come una lampada attirava una falena.

La metamorfosi di Anna.

Il giorno prima, aveva raccolto quella creatura senza memoria, vulnerabile e nuda come un bebè. La scoperta dell’henné aveva cambiato tutto. Intorno a quella rivelazione lei si era cristallizzata come un quarzo. In quel momento le sembrava di aver capito che il peggio non era più da temere, ma, al contrario, da affrontare. Era lei che, malgrado il pericolo, aveva voluto avanzare contro il nemico e sorprendere Eric Ackermann.

Era lei, ormai, che aveva preso il comando.

Poi, grazie all’interrogatorio nel parcheggio, era apparsa Sema Gokalp. L’operaia misteriosa dalle molteplici contraddizioni. La clandestina venuta dall’Anatolia che parlava perfettamente il francese. La prigioniera in stato di choc che, dietro al proprio silenzio e al proprio viso mutato, nascondeva un altro passato…

Chi si celava dietro a quel nuovo nome? Chi era la creatura capace di trasformarsi fino a divenire un’altra?

Per avere una risposta bisognava aspettare che lei ritrovasse definitivamente la memoria. Anna Heymes. Sema Gokalp… Era come una bambolina russa dalle identità incassate l’una nell’altra: ogni suo nome, ogni suo aspetto nascondeva ogni volta un altro segreto.

Eric Ackermann si alzò dalla sedia. Tolse l’ago a farfalla dal braccio di Anna, spostò il supporto della flebo e alzò lo specchio all’interno dell’arco. L’esperimento era finito. Mathilde si stiracchiò, poi cercò ancora una volta di schiarirsi le idee. Non ci riuscì. Una nuova immagine le invase la mente.

L’henné.

Quelle linee rosse che disegnavano le mani delle donne musulmane sembravano tracciare un solco profondo tra l’universo parigino e il mondo lontano di Sema Gokalp. Un mondo di deserti, di matrimoni combinati, di riti ancestrali. Un universo selvaggio e spaventoso, nato all’ombra dei venti bollenti, dei rapaci e delle rocce.

Mathilde chiuse gli occhi.

Mani tatuate; arabeschi bruni che si aggrovigliano nel cavo delle mani callose, intorno ai polsi opachi delle dita muscolose; non un solo centimetro di pelle è libero da quei tratti; la linea rossa non si interrompe mai: si lancia, si avviluppa, torna su sé stessa, in anelli e cesellature, fino a dar vita a una geografia ipnotica…

«Si è addormentata.»

Mathilde sussultò. Ackermann era in piedi davanti a lei. Il camice gli dondolava sulle spalle come una bandiera bianca. La fronte era imperlata di sudore. Era scosso da tic e tremiti, ma, nel contempo, la sua figura emanava una strana forza, la sicurezza del sapere, sotto il nervosismo del drogato.

«Com’è andata?»

Prese una sigaretta sulla console informatica e l’accese. Inalò una profonda boccata poi, in un tunnel di fumo, rispose:

«Dapprima le ho iniettato del Flumazenil, l’antidoto del Valium. Poi ho cancellato il mio condizionamento sollecitando ogni zona della sua memoria sotto l’effetto dell’Ossigeno-15. Ho percorso a ritroso lo stesso cammino.» Con la sigaretta disegnò nell’aria un asse verticale. «Con le stesse parole, gli stessi simboli. Peccato che io non abbia più le fotografie e i video degli Heymes. Ma penso che il lavoro più grosso sia fatto. Per il momento le sue idee sono confuse. I suoi veri ricordi torneranno a poco a poco. Anna Heymes sta per scomparire e per lasciare il posto alla prima personalità. Ma attenzione», continuò agitando la sigaretta, «è pura sperimentazione.»

Un vero pazzo, pensò Mathilde, una miscela di freddezza e di esaltazione. Aprì le labbra, ma un nuovo lampo la fermò. Ancora una volta l’henné. Le linee sulle mani prendono vita; anse, spirali, volute si infilano lungo le vene, si attorcigliano intorno alle falangi, fino a raggiungere le unghie nere di pigmenti…

«All’inizio non sarà piacevole», proseguì Ackermann aspirando dalla sua sigaretta. «I differenti livelli del suo cosciente andranno a innestarsi l’uno nell’altro. Le capiterà di non saper più distinguere ciò che è vero da ciò che è artificiale. Poi, progressivamente, la sua memoria iniziale prenderà il sopravvento. Con il Flumazenil ci sono anche rischi di convulsioni, ma le ho dato un’altra cosa per limitare gli effetti collaterali…»

Mathilde si tirò indietro i capelli e pensò che doveva avere una faccia spettrale.

«E i volti?»

Lui spazzò il fumo con un gesto vago.

«Anche quella faccenda dovrebbe finire. I suoi punti di riferimento vanno consolidandosi. I suoi ricordi stanno diventando più chiari, pertanto le sue reazioni si equilibrano. Ma, lo ripeto, tutto questo è assolutamente nuovo e…»

Mathilde vide un movimento dall’altra parte del vetro. Andò immediatamente nella sala della radiodiagnostica. Anna era già seduta sulla barella del Petscan, le gambe dondolanti, le mani appoggiate all’indietro.

«Come ti senti?»

Sul suo volto comparve un sorriso. Le sue labbra chiare segnavano appena la pelle.

Tornò anche Ackermann e spense le ultime macchine.

«Come ti senti?» ripeté lei.

Anna le diede un’occhiata esitante. In quel momento, Mathilde capì. Non era più la stessa donna di prima: gli occhi viola le sorridevano dall’interno di un’altra coscienza.

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