«Qui!» disse Anna.
Il corridoio terminava in uno scomparto più ampio degli altri.
«Il cric», ordinò.
Mathilde aprì la sacca che portava a tracolla e tirò fuori l’attrezzo. Anna lo ficcò tra il marmo e il muro, poi fece leva con tutta la sua forza. Sulla superficie si aprì una prima fessura. Spinse ancora alla base del blocco. La lastra si spezzò in due pezzi e cadde a terra.
Anna ripiegò il cric e lo usò come martello contro la piccola parete di gesso che chiudeva il loculo. Cominciarono a saltare via dei pezzetti che si infilarono tra i suoi capelli neri. Martellava con ostinazione, senza preoccuparsi del rumore.
Mathilde non respirava più. Le pareva che i colpi dovessero sentirsi fino in piace Gambetta. Quanto tempo sarebbe passato prima dell’arrivo dei guardiani?
Tornò il silenzio. Immersa in una nuvola biancastra, Anna si sporse in avanti per sgomberare le macerie.
All’improvviso, un tintinnio risuonò alle loro spalle.
Le due donne si voltarono.
Ai loro piedi, in mezzo ai pezzi di gesso, luccicava una chiave.
«Prova con questa. Risparmierai tempo.»
Videro un uomo con i capelli a spazzola. La sua immagine si rifletteva sulla scacchiera del pavimento. Sembrava camminare sulle acque.
Puntando il suo fucile a pompa, chiese:
«Dov’è?»
Indossava un impermeabile spiegazzato che lo ingobbiva, ma questo non diminuiva l’impressione di potenza che emanava da lui. Era soprattutto il suo volto che, illuminato di lato dal raggio di una lampada, sprigionava una forza d’una crudeltà raggelante.
«Dov’è?» ripeté facendo un passo in avanti.
Mathilde si sentì male. Un dolore scavò nel suo ventre, le gambe le mancarono. Dovette aggrapparsi al loculo per non cadere. Ora non si giocava più. Non si trattava più di tiro a segno, né di triathlon, né di rischi calcolati.
Stavano semplicemente per morire.
L’intruso avanzò ancora, poi, con un gesto secco, armò il fucile:
«Porco dio, dov’è la droga?»
L’uomo con l’impermeabile prese fuoco.
Mathilde si gettò a terra. Nel momento in cui toccò il suolo, capì che la fiamma era uscita dal fucile che egli aveva in pugno. Si rotolò tra i detriti di gesso. Contemporaneamente, una seconda verità le balenò in mente: era Anna che aveva sparato per prima; doveva aver nascosto una pistola automatica nello scomparto cinerario.
Gli spari si moltiplicarono. Mathilde si rannicchiò, con le mani chiuse a pugno sopra al testa. Sopra di lei, gli scomparti cominciarono a esplodere, liberando le urne e il loro contenuto. Quando le prime ceneri la toccarono, urlò. Si alzarono delle nuvole grigie, mentre i proiettili fischiavano e rimbalzavano. In una nebbia di polvere, vide scintille sugli spigoli di marmo, filamenti di fuoco che saltellavano sui calcinacci, vasi che rotolavano a terra rimbalzando e lanciando riflessi argentati. Il corridoio sembrava un inferno siderale, una miscela d’oro e di ferro…
Si raggomitolò ancor di più. I colpi fracassavano i loculi. I fiori si laceravano. Le urne si rompevano svuotandosi, mentre i proiettili sferzavano lo spazio intorno. Si mise a strisciare, chiudendo gli occhi e sussultando a ogni sparo.
All’improvviso tornò il silenzio.
Mathilde si fermò di colpo e aspettò diversi secondi prima di aprire le palpebre.
Non vide nulla.
La galleria era completamente ostruita dalle ceneri, come dopo un’eruzione vulcanica. La puzza di cordite si mescolava alla polvere rendendo ancora più irrespirabile l’aria.
Mathilde non osava muoversi. Pensò di chiamare Anna, ma non lo fece. Non doveva farsi localizzare dall’assassino.
Continuando a riflettere, tastò il proprio corpo: nessuna ferita. Chiuse di nuovo gli occhi e si concentrò. Non un respiro. Non un fremito intorno a lei, fatta eccezione per qualche calcinaccio che cadeva ancora con un rumore smorzato.
Dov’era Anna?
Dov’era l’uomo?
Erano morti entrambi?
Strinse gli occhi per tentare di scorgere qualcosa. Vide infine, due o tre metri più in là, una lampada che produceva una luce fioca. Si ricordò che quei lumi punteggiavano il corridoio ogni dieci metri. Ma qual era? Quello dell’entrata o quello dell’uscita? A destra o a sinistra?
Represse un colpo di tosse, deglutì, poi, senza fare rumore, si alzò su un gomito. Cominciò ad avanzare verso sinistra, in ginocchio, evitando i calcinacci, i bossoli, i cumuli di cenere rovesciati dai vasi…
Improvvisamente, la nebbia si materializzò davanti a lei.
Una forma interamente grigia: l’assassino.
Le sue labbra si aprirono, ma una mano le schiacciò la bocca. Negli occhi iniettati di sangue che la guardavano, Mathilde lesse: se gridi sei morta. Si trovò in gola la canna di un revolver. Sbatté furiosamente le palpebre in segno di assenso. Lentamente, l’uomo sollevò le dita. Lei lo implorò ancora con lo sguardo, esprimendogli la sua totale sottomissione.
In quel momento avvertì una sensazione disgustosa. Era successo qualcosa che la sconvolgeva più della paura di morire: se l’era fatta addosso.
I suoi sfinteri avevano ceduto.
Urina ed escrementi colavano lungo le sue gambe, infradiciando i collant.
L’uomo l’afferrò per i capelli e la trascinò lungo il pavimento. Mathilde si morse le labbra per non urlare. Attraversarono le coltri di nebbia, in mezzo ai vasi, ai fiori e alle ceneri umane.
Svoltarono più volte nelle diverse gallerie. Sempre tirata brutalmente, Mathilde strisciava nella polvere con un sibilo ovattato. Sbatteva le gambe, ma i suoi movimenti non producevano alcun rumore. Apriva la bocca, ma non ne usciva alcun suono. Singhiozzava, gemeva, il suo respiro fischiava tra le labbra, ma tutto sembrava assorbito dall’aria polverosa. In mezzo a tutto quel dolore, capiva che il silenzio era il suo migliore alleato. Al minimo rumore, l’uomo l’avrebbe uccisa.
Rallentarono. Sentì la pressione diminuire. Poi l’uomo l’afferrò di nuovo e cominciò a salire alcuni scalini. Mathilde si inarcò. Un’onda di sofferenza si irradiava dalla sua testa fino al fondo della colonna vertebrale. Le pareva che delle pinze mortali le tirassero la pelle del volto. Le gambe continuavano ad agitarsi, pesanti, umide, coperte di vergogna. Sentiva la fanghiglia immonda che le insudiciava le cosce.
Ancora una volta, tutto si fermò.
Non durò che un istante, ma fu sufficiente.
Mathilde si piegò su sé stessa per vedere cosa stava succedendo. L’ombra di Anna si stagliava nella nebbia, mentre l’assassino, in silenzio, impugnava la sua pistola.
Con un sussulto si alzò in ginocchio per avvertirla.
Troppo tardi: lui tirò il grilletto e ci fu un fracasso assordante.
Ma niente accadde come previsto. Il profilo esplose in mille pezzi, le ceneri si trasformarono in grandine dolorosa. L’uomo gridò. Mathilde si liberò e partì all’indietro, rotolando giù dagli scalini.
Mentre precipitava, capì cos’era successo. L’altro non aveva sparato contro Anna, ma contro una porta a vetri, sporca di polvere, che gli rimandava la propria immagine riflessa. Mathilde ricadde sulla schiena e vide l’impossibile. Mentre la sua nuca sbatteva contro il pavimento, scorse in alto la vera Anna, grigia e impietrita, attaccata al telaio della porta sventrata. Li stava aspettando lassù, sopra i morti, come fosse in assenza di peso.
Appoggiandosi al muro con la mano sinistra, Anna si lanciò in avanti con tutte le forze. Nell’altra mano teneva il collo rotto di un vaso di vetro. Il suo bordo tagliente si piantò dritto nel viso dell’uomo.
Non ebbe il tempo di impugnare il revolver, che già Anna aveva ritirato la sua lama. Lo sparo attraversò la polvere. Un istante dopo lei attaccava di nuovo. Il vetro scivolò sulla tempia e stridette sulla pelle. Un altro proiettile si perse nell’aria. Anna era già appiattita contro la parete.
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