Da quando, alle undici della sera prima, aveva parlato al telefono con Schiffer, stava seguendo la pista dei chirurghi plastici. Aveva accettato la nuova svolta nell’inchiesta: una donna dal viso modificato inseguita nello stesso tempo dagli uomini di Charlier e dai Lupi grigi. Allora si era recato alla sede del Consiglio dell’Ordine dei medici, in avenue de Friedland, ottavo arrondissement, in cerca di medici che avessero avuto problemi con la giustizia. Rifare totalmente un volto non è mai un’operazione innocente , aveva detto Schiffer. Bisognava dunque cercare un chirurgo senza scrupoli. Paul aveva avuto l’idea di cominciare da quelli che avevano la fedina penale sporca.
Si era immerso negli archivi e non aveva esitato a convocare in piena notte il responsabile di quell’ufficio per venirlo ad aiutare. Risultato: più di seicento fascicoli per il solo dipartimento dell’Ile de France negli ultimi cinque anni. Come cavarsela con una lista così? Alle due del mattino aveva chiamato Jean-Philippe Arnaud, il presidente dell’associazione dei chirurghi estetici, per chiedergli consiglio. In risposta, l’altro, insonnolito, aveva fatto tre nomi: virtuosi dalla dubbia reputazione che avrebbero potuto accettare quel tipo di operazione senza andare troppo per il sottile.
Prima di riagganciare, Paul l’aveva ancora interrogato sugli altri chirurghi plastici, quelli «rispettabili». A denti stretti, Araaud aveva aggiunto altri sette nomi, precisando che quei medici, conosciuti e riconosciuti, non si sarebbero mai lanciati in una simile operazione. Paul aveva tagliato corto e lo aveva ringraziato.
Alle tre del mattino aveva dunque una lista di dieci nomi. Per lui, la notte era appena cominciata…
Si fermò dall’altro lato della balconata del Trocadéro, tra i due padiglioni dei musei, di fronte alla valle della Senna. Seduto sugli scalini, si lasciò conquistare dalla bellezza di quello spettacolo. I giardini, con le loro terrazze, le loro fontane e le loro statue, si dispiegavano in una scenografia da fiaba. Il ponte di Iena depositava le sue pennellate di luce sul fiume, fino alla Tour Eiffel, sull’altra riva, che assomigliava a un grosso fermacarte in ghisa. Tutto intorno, gli edifici oscuri del Champ-de-Mars dormivano in un silenzio da tempio. Il quadro d’insieme evocava un regno nascosto del Tibet, uno Xanadu meraviglioso, situato ai confini del mondo conosciuto.
Paul lasciò affluire i ricordi delle ultime ore.
All’inizio aveva cercato di contattare telefonicamente i chirurghi. Ma fin dalla prima chiamata aveva capito che in quel modo non avrebbe ottenuto niente: gli avevano sbattuto la cornetta in faccia. In ogni modo, doveva subito far vedere loro le foto delle vittime e quella di Anna Heymes che Schiffer gli aveva lasciato al commissariato Louis-Blanc.
Si era dunque recato dal più vicino dei chirurghi «sospetti», in rue Clément-Marot. D’origine colombiana, miliardario, l’uomo, secondo Jean-Philippe Arnaud, aveva operato la metà dei «padrini» di Medellin e di Cali. La sua reputazione, in quanto ad abilità, era immensa. Si diceva che potesse operare indifferentemente con la mano destra o con la sinistra.
Malgrado l’ora tarda, l’artista non era ancora a letto, o, quantomeno, non dormiva. Paul l’aveva disturbato nel bel mezzo di alcuni giochi intimi, nella penombra profumata del suo vasto loft. Non aveva visto distintamente il suo viso, ma aveva capito che quei ritratti non gli dicevano niente.
Il secondo indirizzo era quello di una clinica di rue Washington, dall’altra parte degli Champs-Elysées.
Paul aveva beccato il chirurgo proprio prima di un intervento d’urgenza su un grande ustionato. Aveva recitato in pieno la sua parte: tesserino della polizia, qualche parola sull’affare, le foto spiattellate su di una barella.
L’altro non aveva neppure abbassato la mascherina chirurgica. Aveva solo fatto no con la testa, prima di andarsene verso le sue carni carbonizzate. Paul si ricordò allora delle parole di Arnaud: quell’uomo creava artificialmente la pelle umana. Si diceva che, con una bruciatura, potesse modificare le impronte digitali e perfezionare così il cambiamento d’identità di un criminale in fuga.
Paul era ripartito nella notte.
Il terzo lo aveva colto in pieno sonno, nel suo appartamento in avenue d’Eylau, vicino al Trocadéro. Un’altra celebrità, alla quale si attribuivano interventi sulle più grandi star dello spettacolo. E tuttavia, nessuno sapeva «su chi» e «su cosa». Si mormorava che lui stesso avesse cambiato volto, dopo alcuni problemi con la giustizia del suo paese d’origine, il Sudafrica.
Aveva ricevuto Paul con diffidenza, le mani infilate nelle tasche della vestaglia come dei revolver. Dopo aver guardato le foto, con ripugnanza, aveva dato una risposta categorica: «Mai viste».
Paul era uscito da quelle tre visite come da un’apnea profonda. Alle sei del mattino aveva sentito bruscamente il bisogno di segni familiari, di punti di riferimento. Ecco perché aveva chiamato la sua sola famiglia, o almeno quello che ne restava. La telefonata non lo aveva riconfortato. Reyna continuava a vivere su un altro pianeta. E Céline, dal profondo del sonno, era distante anni luce da quell’universo. Un mondo dove gli assassini ficcavano roditori vivi nel sesso delle donne, o dove i poliziotti tagliavano le falangi per ottenere informazioni…
Paul alzò gli occhi. Lo spettro dell’aurora si stagliava all’orizonte, come la sagoma di un astro lontano. Una larga striscia violetta prendeva a poco a poco una tinta rosata e distillava, alla sommità del suo arco, un color di zolfo, già pigmentato da particelle bianche e brillanti. L’argento del giorno…
Si rialzò e tornò sui suoi passi. Quando raggiunse piace du Trocadéro, i caffè stavano aprendo. Scorse le luci del Malakoff, la brasserie dove aveva dato appuntamento a Naubrel e Matkowska, i suoi due agenti della polizia giudiziaria.
Il giorno prima, aveva ordinato loro di abbandonare la pista delle camere iperbariche per raccogliere tutto ciò che potevano trovare sui Lupi grigi e sulla loro storia politica. Paul si concentrava sulla preda, ma voleva anche conoscere i cacciatori.
Sulla porta del caffè-brasserie si fermò un istante pensando al nuovo problema che lo rodeva da qualche ora: la sparizione di Jean-Louis Schiffer. Dopo la telefonata delle ventitré non aveva più dato notizie. Paul aveva cercato a più riprese di contattarlo, ma invano. Avrebbe potuto immaginare il peggio, preoccuparsi per la sua vita; e invece no, sentiva piuttosto che quel bastardo lo aveva preceduto. Una volta in libertà, Schiffer aveva senza dubbio scoperto una pista fertile e l’aveva seguita da solo.
Controllando la sua rabbia, Paul gli concesse mentalmente un ultimo appello: gli dava fino alle dieci per farsi vivo. Passato quel limite, avrebbe fatto partire le ricerche.
Spinse la porta del caffè, sentendosi di nuovo di umore nero.
I due luogotenenti erano già seduti in una zona appartata. Prima di raggiungerli, Paul si sfregò il volto con le mani e cercò di sistemarsi il parka spiegazzato. Voleva provare ad apparire ciò che era, il loro superiore, e non sembrare un barbone strappato alla notte.
Attraversò quell’ambiente troppo illuminato, troppo rinnovato, dove tutto, dai lampadari allo schienale delle sedie, sembrava falso. Finto legno, finto zinco, finta pelle. Un bar pacchiano, abitualmente saturo di vapori d’alcol e di chiacchiere da banco, ma per il momento ancora deserto.
Paul si sedette davanti ai due investigatori e ritrovò con piacere le loro facce allegre. Naubrel e Matkowska non erano dei grandi poliziotti, ma avevano l’entusiasmo della gioventù. Ricordavano a Paul il cammino che lui non aveva mai saputo prendere: quello della spensieratezza, della leggerezza.
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