Jean-Christophe Grangé - L'impero dei lupi

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Anna Heymes, moglie di un alto funzionario parigino, dopo un intervento di chirurgia estetica soffre di crisi di amnesia e di terribili allucinazioni. Alla ricerca della sua identità e del suo vero volto, incontra Paul, il giovane commissario che sta indagando sull’atroce omicidio di tre ragazze turche impiegate in un laboratorio clandestino. Paul ha chiesto l’aiuto di un poliziotto in pensione dal passato turbolento, Jean-Louis Schiffer, creando così una coppia eccentrica ma tenacissima.
Inizia così una vera e propria discesa agli inferi: un viaggio nei labirinti della mente dei protagonisti, ma anche in un mondo popolato da feroci assassini e trafficanti di immigrati
, oltre che da bande terroriste che vanno dai guerriglieri no-global ai Lupi grigi turchi.

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Un flash nella sua mente. L’idea di prima tornò prepotentemente. Come aveva fatto un’operaia a capire che gli intrusi erano dei Lupi grigi? Come poteva sapere che avevano sbagliato obiettivo? C’era una sola risposta: la vera Preda era lei.

Sema Gokalp era la donna da uccidere.

Senza difficoltà, Schiffer ricompose il puzzle. Gli assassini avevano avuto una soffiata: il loro obiettivo lavorava, di notte, nell’hammam di Talat Gurdilek. Erano entrati e avevano rapito la prima donna che assomigliasse a quella della loro foto: Zeynep Tütengil. Ma si erano sbagliati: la rossa, la vera, aveva preso delle precauzioni e si era tinta i capelli di nero.

Gli venne un’altra idea. Estrasse dalla tasca l’identikit:

«La ragazza assomigliava a questa?»

L’uomo si sporse in avanti per guardare:

«Assolutamente no. Perché me lo chiede?»

Schiffer mise in tasca il foglio senza rispondere.

Un secondo flash. Una nuova conferma. Sema Gokalp, o la donna che si nascondeva dietro quel nome, era andata oltre nella sua metamorfosi: aveva cambiato volto. Aveva fatto ricorso alla chirurgia estetica. Una tecnica classica per quelli che vogliono prendere definitivamente il largo. Soprattutto nell’universo criminale. Poi si era fatta passare per un’anonima operaia, persa nei vapori della Porte Bleue. Ma perché era rimasta a Parigi?

Per qualche istante cercò di mettersi nei suoi panni. Quando, la notte del 13 novembre 2001, aveva visto penetrare nel laboratorio i Lupi incappucciati, aveva pensato che per lei era finita. E invece gli assassini si erano gettati sulla sua compagna di lavoro. Una rossa che rassomigliava a quella che lei era una volta… Quella donna aveva subito uno stress intenso. Era il minimo che si potesse dire.

«Cos’altro ha raccontato?» riprese. «Cerchi di ricordarselo.»

«Credo…»

Distese le gambe e fissò ancora i lacci delle scarpe.

«Credo che parlasse di una strana notte. Una notte singolare in cui brillavano quattro lune. E poi parlava di un uomo dal mantello nero.»

Se ancora aveva bisogno di un’ultima prova, eccola. Le quattro lune. I turchi che conoscevano il significato di quel simbolo si potevano contare sulle dita di una mano. La verità andava oltre l’immaginabile.

Perché ora lui capiva chi era quella preda.

E perché la mafia turca avesse lanciato i Lupi al suo inseguimento.

«Passiamo ai poliziotti che sono venuti il giorno dopo», riprese Schiffer cercando di controllare la propria eccitazione. «Cos’hanno detto mentre la portavano via?»

«Niente, mi hanno solo mostrato la loro autorizzazione.»

«Che aspetto avevano?»

«Dei colossi. Con dei vestiti costosi. Il genere “guardia del corpo”.»

I cerberi di Philippe Charlier. Dove l’avevano portata? In un centro di detenzione provvisoria? L’avevano rispedita al suo paese? La Divisione antiterrorismo sapeva che era realmente Sema Gokalp? No, sicuramente non lo sapevano. Quel rapimento e quel mistero dovevano avere un’altra spiegazione.

Salutò il medico, attraversò la stanza rossa e, sulla porta, si voltò:

«Ammettendo che Sema sia ancora a Parigi, lei dove la cercherebbe?»

«In un manicomio.»

«Ma ha avuto il tempo di riprendersi da quelle emozioni, no?»

Il tipo alto cercò di spiegarsi meglio:

«Forse mi sono espresso male. Quella donna non ha avuto paura. Ha incontrato il terrore in persona. Ha superato la soglia di ciò che un essere umano può tollerare.»

46.

L’ufficio di Philippe Charlier era al numero 133 di rue du Faubourg-Saint-Honoré, non lontano dal Ministero degli interni.

Gli edifici dall’aria tranquilla a pochi passi dagli Champs-Elysées erano in realtà dei bunker ben sorvegliati. Delle estensioni del potere poliziesco a Parigi.

Jean-Louis Schiffer superò il portone e passò nel giardino. Il parco formava un grande quadrato di ciottoli grigi, lisci e puliti come quelli di un giardino zen. Le siepi di ligustro, tagliate con cura, formavano pareti invalicabili, mentre gli alberi mostravano i loro rami troncati come monconi. Non un luogo di combattimento, pensò Schiffer: un luogo di menzogna.

Al fondo, c’era un edificio dal tetto d’ardesia, con una veranda i cui vetri erano sostenuti da una struttura di metallo nero. Al di sopra di essa, la facciata mostrava le sue cornici, i suoi balconi e i suoi ricami di pietra. «Stile impero», decretò Schiffer, scorgendo gli allori incrociati sulle anfore tonde nelle nicchie. In realtà, lui qualificava così qualsiasi architettura che avesse superato lo stadio dei torrioni e delle feritoie.

Sulla scalinata gli vennero incontro due poliziotti in uniforme.

Schiffer fece il nome di Charlier. Erano le ventidue, ed era certo che lo sbirro dal colletto bianco fosse ancora lì ad architettare complotti alla luce della sua lampada da scrivania.

Uno dei piantoni lo fece annunciare, continuando a tenerlo d’occhio. Ascoltò la risposta, scrutando ancora più intensamente il visitatore. Poi, i due uomini lo fecero passare attraverso un metal detector e lo perquisirono.

Infine, poté attraversare la veranda e si ritrovò in una grande sala di pietra. «Primo piano», gli dissero.

Schiffer si diresse verso la scala. I suoi passi risuonavano come in una chiesa. Gli scalini erano di granito levigato dall’uso e la balaustra di marmo; ai lati due candelabri di ferro battuto.

Schiffer sorrise: si trattavano bene i cacciatori di terroristi.

Il primo piano concedeva qualcosa in più alla modernità: pannelli di legno verniciato, applique in mogano, moquette marrone. In fondo al corridoio rimaneva un ultimo ostacolo da superare: lo sbarramento di controllo che dava l’esatta misura del potere del commissario Philippe Charlier.

Quattro uomini con la tuta di kevlar nero montavano la guardia dietro un vetro blindato. Sopra la tuta portavano una giubba d’assalto nella quale erano infilate pistole, caricatori, granate e altri gingilli del genere. Ognuno di loro teneva in pugno un fucile mitragliatore a canna corta di marca H K.

Schiffer si prestò a una nuova perquisizione. Questa volta, Charlier fu avvertito attraverso una ricetrasmittente. Alla fine, poté raggiungere una doppia porta in legno chiaro sulla quale c’era una targa di rame. Visto l’ambiente, bussare era inutile.

Il Gigante Verde era seduto dietro una scrivania di quercia massiccia, in maniche di camicia. Si alzò e si aprì in un ampio sorriso.

«Schiffer, mio vecchio Schiffer…»

Ci fu una stretta di mano silenziosa, durante la quale i due uomini si studiarono. Charlier era sempre lo stesso. Un metro e ottantacinque. Più di cento chili. Una roccia affabile, col naso rotto e i baffi da orsacchiotto, che, a dispetto dell’alto grado, portava ancora la pistola alla cintura.

Schiffer notò la qualità della camicia: blu cielo, con il colletto bianco, il celebre modello firmato Charvet. Malgrado i suoi sforzi per essere elegante, Charlier conservava nel corpo qualcosa di terribile; una potenza fisica che lo collocava in una dimensione diversa da quella degli esseri umani. Il giorno dell’Apocalisse, quando gli uomini avrebbero avuto solo le proprie mani per difendersi, lui sarebbe stato l’ultimo a morire…

Si sprofondò di nuovo nella sua poltrona di pelle e prese a guardare con disprezzo quel suo interlocutore così mal vestito. Poi, tamburellando con le dita sui fogli che ingombravano la scrivania, chiese: «Cosa vuoi? Ho parecchio lavoro.»

Schiffer sentiva che la sua aria tranquilla era pura finzione: Charlier era teso. Ignorando la sedia che il commissario gli indicava, attaccò:

«Il 14 novembre 2001 hai fatto trasferire un testimone di una violazione di domicilio. La Porte Bleue, un bagno turco nel decimo arrondissement. Il testimone si chiamava Sema Gokalp. Il responsabile dell’inchiesta era Christophe Beauvanier. Il problema è che nessuno sa dove hai trasferito quella donna. Hai cancellato ogni traccia e l’hai fatta sparire. Me ne frego del perché l’hai fatto. Voglio sapere solo una cosa: dov’è?»

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