Jean-Christophe Grangé - L'impero dei lupi

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Anna Heymes, moglie di un alto funzionario parigino, dopo un intervento di chirurgia estetica soffre di crisi di amnesia e di terribili allucinazioni. Alla ricerca della sua identità e del suo vero volto, incontra Paul, il giovane commissario che sta indagando sull’atroce omicidio di tre ragazze turche impiegate in un laboratorio clandestino. Paul ha chiesto l’aiuto di un poliziotto in pensione dal passato turbolento, Jean-Louis Schiffer, creando così una coppia eccentrica ma tenacissima.
Inizia così una vera e propria discesa agli inferi: un viaggio nei labirinti della mente dei protagonisti, ma anche in un mondo popolato da feroci assassini e trafficanti di immigrati
, oltre che da bande terroriste che vanno dai guerriglieri no-global ai Lupi grigi turchi.

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Un mese dopo era stato rimpatriato in Francia, colpito da totale mutismo. Le sue mascelle erano paralizzate: non poteva pronunciare neanche una parola. Era stato internato al Sainte-Anne, in un edificio occupato solo da traumatizzati di guerra. Quel genere di posto dove i corridoi risuonano di gemiti e dove è impossibile finire un pasto senza essere inzaccherati dal vomito di un vicino di tavola.

Rinchiuso nel suo silenzio, Schiffer viveva in uno stato di terrore. Nei giardini soffriva di disorientamento; non sapeva più dove si trovava e si chiedeva se gli altri malati non fossero per caso i detenuti che lui aveva torturato. Quando camminava lungo il portico del padiglione, rasentava i muri «per non essere visto dalle sue vittime».

La notte gli incubi prendevano il posto delle allucinazioni. Uomini nudi, inebetiti sulle loro sedie, testicoli che si incendiavano sotto gli elettrodi, mandibole che si fracassavano contro lo smalto dei lavabo, narici che sanguinavano, ostruite dalla siringa… Per la verità, non erano visioni, erano ricordi. Rivedeva soprattutto quell’uomo, appeso a testa in giù, a cui aveva fatto esplodere la testa con un calcio. Si risvegliava annegato nel sudore, si vedeva ancora sporco di quel cervello. Scrutava l’interno della propria camera e vedeva intorno a sé i muri lisci di una cantina, la vasca da bagno installata da poco e, sul tavolo al centro, la ricetrasmittente ANGRC9, la famosa gégène.

I medici gli avevano spiegato che non era possibile cancellare ricordi così. Al contrario, gli consigliarono di affrontarli, di dedicare a essi un po’ di tempo ogni giorno. Quella strategia andava d’accordo col suo carattere. Non si era fermato sul campo, non si sarebbe certo perso ora, in quel giardino popolato di fantasmi.

Aveva firmato il proprio foglio di dimissione e si era immerso nella vita civile.

Aveva fatto richiesta per diventare poliziotto, nascondendo i suoi trascorsi psichiatrici e puntando sul proprio grado di sergente e le sue onorificenze militari. Il contesto politico gli era favorevole. A Parigi gli attentati dell’OAS si moltiplicavano. C’era bisogno di gente per braccare i terroristi, di gente che avesse naso per fiutare il terreno… E quello lui lo sapeva fare. Il suo senso della strada aveva subito fatto meraviglie, così come i suoi metodi. Lavorava da solo, senza l’aiuto di nessuno, mirando solo ai risultati. E di risultati ne otteneva parecchi.

Ormai, la sua esistenza sarebbe stata quella. Avrebbe contato sempre su sé stesso, solo su sé stesso. Sarebbe stato al di sopra delle leggi e al di sopra degli uomini. Sarebbe stato lui stesso la sua sola legge e avrebbe attinto solo alla sua voglia di giustizia. Una sorta di patto cosmico: la sua parola contro tutta la merda del mondo.

«Cosa vuole?»

La voce lo fece sussultare. Si alzò e fotografò l’uomo che stava arrivando.

Jean-François Hirsch era alto, più di un metro e ottanta, e magro. Lunghe braccia e mani massicce. Schiffer le vide come due contrappesi per dare equilibrio a quel profilo longilineo. In più aveva un bel viso, incorniciato da capelli biondi e ricci. Un altro punto di equilibrio… Non indossava il camice, ma un cappotto di loden. Evidentemente stava per uscire.

Schiffer si presentò, senza mostrare il tesserino:

«Luogotenente Jean-Louis Schiffer. Dovrei farle delle domande. Basteranno pochi minuti.»

«Sto finendo il turno e sono già in ritardo. Non si può rimandare a domani?»

La voce era un altro contrappeso. Grave. Stabile. Solida.

«Spiacente», replicò il poliziotto. «È una questione importante.»

Il medico squadrò il suo interlocutore. L’odore di menta si infilava in mezzo a loro come un paravento di freschezza. Hirsch sospirò e si sedette su una delle panche imbullonate:

«Di cosa si tratta?»

Schiffer rimase in piedi.

«Un’operaia turca che lei ha visitato il 14 novembre 2001, al mattino. Era stata portata qui dal luogotenente Christophe Beauvanier.»

«E allora?»

«A noi pare che in quella procedura ci siano state delle irregolarità.»

«Lei di quale ufficio è?»

Il poliziotto ci andò pesante:

«Inchiesta interna. Ispezione generale dei servizi.»

«La avviso, non dirò una parola sul capitano Beauvanier. Mai sentito parlare del segreto professionale?»

Il medico si stava sbagliando sul perché di quelle domande. Certamente aveva aiutato «Mister Man» a risolvere uno dei suoi problemi di droga. Schiffer assunse un tono distaccato:

«La mia inchiesta non riguarda Cristophe Beauvanier. Non me ne importa niente se gli avete prescritto il metadone o qualcosa del genere.»

Schiffer aveva visto giusto, l’altro alzò un sopracciglio poi si raddolcì:

«Cos’è che vuole sapere?»

«L’operaia turca. Mi interessano i poliziotti che sono venuti a prenderla, dopo.»

Lo psichiatra accavallò le gambe e aggiustò la piega dei pantaloni:

«Sono arrivati circa quattro ore dopo che era stata ricoverata. Avevano l’ordine di trasferimento e quello di espulsione. Era tutto regolare. Quasi troppo, direi.»

«Troppo?»

«I moduli erano timbrati, firmati. Venivano direttamente dal Ministero degli interni. Era la prima volta che vedevo tanti documenti per una semplice clandestina.»

«Mi parli di lei.»

Hirsch si osservava la punta delle scarpe, cercando di riordinare le idee:

«Quando è arrivata ho pensato a un’ipotermia. Tremava. Le mancava il fiato. Dopo averla visitata, mi sono reso conto che la sua temperatura era normale. Anche il suo apparato respiratorio era a posto. I sintomi erano di origine isterica.»

«Che cosa vuole dire?»

Abbozzò un sorriso di superiorità:

«Mostrava dei segni fisici, ma nessuna causa fisiologica.»

Poi, puntando l’indice alla tempia, aggiunse:

«Veniva tutto da qui, dalla testa. Quella donna aveva subito uno choc. Il suo corpo reagiva di conseguenza.»

«Secondo lei, che genere di choc?»

«Una violenta paura. Erano i sintomi classici di un’angoscia esogena. Le analisi del sangue lo hanno confermato. Abbiamo trovato tracce di una forte scarica di ormoni e anche un significativo picco di cortisolo. Ma queste sono cose un po’ troppo tecniche per lei…»

Il sorriso divenne beffardamente altezzoso.

Quel tipo cominciava a dargli fastidio, con le sue arie. L’altro parve avvertirlo e, con un tono più naturale, aggiunse:

«Quella donna aveva subito uno stress intenso. A quel livello arriverei a parlare di trauma. Mi ricordava i casi che si incontrano al fronte, dopo le battaglie. Paralisi inspiegabili, asfissie improvvise, balbuzie, quel tipo di…»

«Conosco queste cose. Me la descriva. Fisicamente, intendo.»

«Bruna. Molto pallida. Molto magra, al limite dell’anoressia. Pettinata alla Cleopatra. Un fisico molto duro, ma questo, stranamente, non intaccava la sua bellezza. Al contrario. Da quel punto di vista era abbastanza… impressionante.»

Schiffer incominciava a farsi un’idea piuttosto chiara della ragazza. L’istinto gli suggeriva che quella non era una semplice operaia. Né una semplice testimone.

«L’ha curata?»

«Dapprima le ho iniettato un ansiolitico. I suoi muscoli si sono rilassati. Si è messa a sghignazzare, poi a farfugliare. Una vera buffée delirante. Le sue frasi erano senza senso.»

«In ogni modo parlava in turco, no?»

«No. Parlava francese come lei e me.»

Un’idea folle gli attraversò la mente. Ma preferì accantonarla, per conservare il suo sangue freddo.

«Le ha detto quello che aveva visto? Quello che era successo nell’hammam?»

«No. Non faceva altro che ripetere pezzi di frasi, parole incoerenti.»

«Ad esempio?»

«Diceva che i lupi si erano sbagliati. Sì, proprio così… Parlava di lupi. Ripeteva che avevano rapito la ragazza sbagliata. Incomprensibile.»

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