Jean-Christophe Grangé - L'impero dei lupi

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Anna Heymes, moglie di un alto funzionario parigino, dopo un intervento di chirurgia estetica soffre di crisi di amnesia e di terribili allucinazioni. Alla ricerca della sua identità e del suo vero volto, incontra Paul, il giovane commissario che sta indagando sull’atroce omicidio di tre ragazze turche impiegate in un laboratorio clandestino. Paul ha chiesto l’aiuto di un poliziotto in pensione dal passato turbolento, Jean-Louis Schiffer, creando così una coppia eccentrica ma tenacissima.
Inizia così una vera e propria discesa agli inferi: un viaggio nei labirinti della mente dei protagonisti, ma anche in un mondo popolato da feroci assassini e trafficanti di immigrati
, oltre che da bande terroriste che vanno dai guerriglieri no-global ai Lupi grigi turchi.

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«Non l’abbiamo cambiata noi la tua faccia.»

«Cosa?»

Le osservò di nuovo attraverso gli occhiali. La sorpresa aveva bloccato i loro lineamenti. Piantò i suoi occhi nelle pupille di Anna:

«Quando ti abbiamo trovata eri così. Alle prime radiografie ho scoperto le cicatrici, gli impianti, i perni. Era incredibile. Un’operazione estetica completa. Un affare che sarà costato una fortuna. Non certo il tipo di intervento che può permettersi un’operaia clandestina.»

«Cosa vuoi dire?»

«Tu non sei un’operaia. Charlier e gli altri si sono sbagliati. Hanno creduto di rapire un’anonima turca. Ma tu eri molto più di quello. Per folle che possa sembrare, io credo che tu ti stessi nascondendo nel quartiere turco quando ti hanno trovata.»

Anna scoppiò in singhiozzi:

«Non è possibile… Non è possibile… Quando finirà?»

«In un certo senso», continuò lui con uno strano accanimento, «questo aspetto spiega il successo della manipolazione. Io non sono un mago. Non avrei mai potuto trasformare fino a questo punto un’operaia piombata qui dall’Anatolia. Solo Charlier può credere a una cosa del genere.»

Mathilde si soffermò ancora su quel punto:

«Cos’ha detto quando gli hai comunicato che il viso della ragazza era stato modificato?»

«Non gliel’ho detto. Era una cosa da delirio, l’ho nascosta a tutti.»

Si voltò verso Anna e proseguì:

«Anche l’ultimo sabato, quando sei venuta al Becquerel, io ho sostituito le radiografie. Le tue cicatrici apparivano su tutte le lastre.»

Anna si asciugò le lacrime:

«Perché l’hai fatto?»

«Volevo portare a termine l’esperimento. L’occasione era troppo bella… Il tuo stato psichico era ideale per tentare l’avventura. L’unica cosa che contava era il programma…»

Anna e Mathilde erano interdette.

Quando la piccola Cleopatra riprese, la sua voce era secca come una foglia in autunno.

«Se non sono Anna Heymes, né Sema Gokalp, chi sono allora?»

«Non ne ho la più pallida idea. Un’intellettuale, una rifugiata politica… O una terrorista. Io…»

I neon si spensero ancora una volta. Mathilde non si mosse. L’oscurità parve diventare profonda, come dentro una colata di catrame. Passò un breve istante. Lui si disse: «Mi sono sbagliato, adesso mi ammazzano.» Ma la voce di Anna risuonò nelle tenebre:

«Non c’è che un modo per saperlo.»

Nessuno riaccese la luce. Eric Ackermann indovinava il seguito. Anna, improvvisamente vicino a lui, mormorò:

«Mi devi rendere quello che mi hai rubato. La mia memoria.»

OTTO

42.

Era riuscito a sbarazzarsi del ragazzo, e questo era già parecchio.

Dopo la corrida alla stazione e le rivelazioni che ne erano seguite, Jean-Louis Schiffer aveva portato Paul Nerteaux in una brasserie di fronte alla Gare de l’Est, La Strasbourgeoise. Gli aveva di nuovo spiegato quale fosse la vera chiave dell’inchiesta: «Cherchez la femme», cercare la donna. In quella situazione non contava nient’altro, né le vittime, né gli assassini. Dovevano scovare l’obiettivo dei Lupi grigi; la donna che cercavano da cinque mesi nel quartiere turco e che fino a quel momento avevano mancato.

Alla fine, dopo un’ora di discussione serrata, Paul Nerteaux aveva capitolato e aveva dato all’inchiesta una svolta di centottanta gradi. La sua intelligenza e la sua capacità di adattamento continuavano a stupire Schiffer; il ragazzo aveva definito lui stesso la nuova strategia da seguire.

Primo punto: elaborare un identikit della preda basandosi sulle fotografie delle tre morte, poi diffondere un avviso di ricerca nel quartiere turco.

Secondo punto: aumentare i pattugliamenti, moltiplicare i controlli d’identità e le perquisizioni nella Piccola Turchia. Ispezioni di quel tipo potevano apparire ridicole, ma, secondo Nerteaux, la donna che stavano cercando potevano trovarla anche per caso. Era già successo: dopo venticinque anni di latitanza, Totò Riina, il capo supremo di Cosa Nostra, era stato arrestato nel bel mezzo di Palermo a seguito di un banale controllo d’identità.

Terzo punto: tornare da Marius, il capo dell’Iskele, ed esaminare i suoi schedari per vedere se c’erano altre operaie che corrispondevano a quella segnalazione. A Schiffer quell’idea piaceva, ma non poteva certo presentarsi là, dopo il trattamento che aveva riservato al mercante di schiavi.

Per contro, teneva per sé il quarto punto: andare a trovare Talat Gurdilek, l’uomo presso il quale aveva lavorato la prima vittima. Bisognava terminare gli interrogatori di tutti i datori di lavoro delle vittime e lui era il candidato.

Infine c’era il quinto punto, il solo che mirasse agli assassini: avviare una ricerca presso quelli del Servizio immigrazione e dei visti d’ingresso, per verificare se dal novembre 2001 fosse arrivato in Francia qualche fuoriuscito turco noto per i suoi legami con l’estrema destra e con la mafia. Questo significava spulciare tutti gli arrivi dall’Anatolia degli ultimi cinque mesi, confrontarli con le schede dell’Interpol e con i dati della polizia turca.

Schiffer non credeva a quella pista, conosceva troppo bene i rapporti tra i suoi colleghi turchi e i Lupi grigi, ma aveva ugualmente lasciato parlare il giovane poliziotto tutto fuoco e fiamme.

Per la verità, non credeva a nessuna di quelle manovre, ma si era mostrato paziente, perché aveva in testa una nuova idea…

Mentre stavano andando verso l’Ile de la Cité, dove Nerteaux contava di presentare il suo nuovo piano al giudice Bomarzo, lui aveva giocato la sua carta. Gli aveva spiegato che il metodo migliore era quello di separare le squadre. Mentre Paul diffondeva gli identikit e allertava gli uomini del commissariato del decimo arrondissement, lui sarebbe andato da Gurdilek…

Il giovane capitano si era riservato di dargli una risposta dopo l’incontro con il magistrato. L’aveva fatto aspettare per più di due ore in un piccolo bar di fronte al palazzo di giustizia, mettendolo addirittura sotto la sorveglianza di un agente. Poi era uscito dalla riunione tutto su di giri: Bomarzo gli aveva dato carta bianca per il suo programma. Quella prospettiva lo esaltava in modo evidente e ora si mostrava d’accordo su tutto.

Alle diciotto lo aveva lasciato in boulevard de Magenta, vicino alla Gare de l’Est, e gli aveva dato appuntamento alle venti al caffè Sancak, in rue du Faubourg-Saint-Denis, per fare il punto della situazione.

Ora Schiffer camminava in rue du Paradis. Finalmente solo! Finalmente libero… Libero di respirare il gusto acido del suo quartiere, di sentire la forza magnetica del «suo» territorio. La fine del giorno aveva il pallore e il torpore della febbre. Il sole deponeva sulle vetrine delle particelle di luce, una sorta di talco dorato che aveva una macabra grazia, un vero maquillage da imbalsamatore.

Avanzava con passo rapido, preparandosi ad affrontare uno dei più grandi caid del quartiere: Talat Gurdilek. Un uomo che era arrivato a Parigi negli anni Sessanta, a diciassette anni, senza un soldo, senza nessuna qualità particolare, e che ora era proprietario di una ventina di laboratori tessili in Francia e in Germania, oltre a una buona decina di tintorie e di lavanderie automatiche. Un signorotto che controllava tutti i livelli del quartiere turco, ufficiali e non ufficiali, legali e illegali. Quando Gurdilek starnutiva, era tutto il ghetto a prendersi il raffreddore.

Al 58, Schiffer spinse un portone. Penetrò in un vicolo cieco, solcato centralmente da un canale di scolo nerastro e fiancheggiato da laboratori e tipografie. In fondo al vicolo, entrò in un cortile rettangolare, pavimentato a losanghe. Sulla destra c’era una minuscola scala che scendeva in un fossato sormontato da aiuole spelacchiate.

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