Jean-Christophe Grangé - L'impero dei lupi

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Anna Heymes, moglie di un alto funzionario parigino, dopo un intervento di chirurgia estetica soffre di crisi di amnesia e di terribili allucinazioni. Alla ricerca della sua identità e del suo vero volto, incontra Paul, il giovane commissario che sta indagando sull’atroce omicidio di tre ragazze turche impiegate in un laboratorio clandestino. Paul ha chiesto l’aiuto di un poliziotto in pensione dal passato turbolento, Jean-Louis Schiffer, creando così una coppia eccentrica ma tenacissima.
Inizia così una vera e propria discesa agli inferi: un viaggio nei labirinti della mente dei protagonisti, ma anche in un mondo popolato da feroci assassini e trafficanti di immigrati
, oltre che da bande terroriste che vanno dai guerriglieri no-global ai Lupi grigi turchi.

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Tutto questo sarebbe possibile senza l’11 settembre 2001. Gli attentati alle Twin Towers e al Pentagono.

Il soffio dell’esplosione polverizza su scala mondiale le certezze delle polizie, le tecniche di investigazione e di controspionaggio. I servizi segreti, le agenzie informative, le polizie e gli eserciti dei paesi minacciati da Al-Quaeda sono in fibrillazione. I responsabili politici sono sbigottiti. Ancora una volta, il pericolo terrorista ha dimostrato la sua forza più grande: il segreto.

Si parla di guerra santa, di minaccia chimica, di allerta atomica…

Philippe Charlier torna in prima linea. È l’uomo della rabbia, dell’ossessione. Una figura forte, dai metodi oscuri, violenti, ma efficaci. Il dossier Morpho viene riesumato. Parole prima disprezzate ora tornano su tutte le labbra: condizionamento, lavaggio del cervello, infiltrazione…

A metà novembre Charlier sbarca all’istituto Henri-Becquerel. Con un grande sorriso annuncia:

«Eccoci di nuovo qui!»

Mi invita al ristorante. Una bettola con cucina lionese: cotechino e vino di Borgogna. L’incubo ricomincia, in mezzo agli odori di grasso e di sanguinaccio.

«Sai qual è il budget annuale della CIA e dell’FBI?» mi chiede.

Dico di no.

«Trenta miliardi di dollari. Hanno satelliti, sottomarini spia, sistemi automatici di riconoscimento, centri di intercettazione mobili. Dispongono della tecnologia più raffinata nel campo della sorveglianza elettronica. Senza contare la National Security Agency e le sue possibilità. Sulla Terra il segreto non esiste più. Se ne è parlato parecchio. Tutto il mondo si è preoccupato. Hanno persino evocato lo spettro del Grande Fratello… Solo che c’è stato l’11 settembre. Un gruppo di ragazzotti armati di coltelli di plastica è riuscito a distruggere le torri del World Trade Center e un bel pezzo del Pentagono, ottenendo un punteggio di circa tremila morti. Gli americani ascoltano tutto, captano tutto, salvo le persone realmente pericolose.»

Il Gigante Verde non ride più. Volge lentamente il palmo delle mani all’insù, sopra il suo piatto:

«Ti immagini i due piatti della bilancia? Da una parte, trenta miliardi di dollari. Dall’altra dei coltelli di plastica. Cos’è che fa la differenza, secondo te? Cos’è che fa pendere questa cazzo di bilancia?»

Tira un pugno sul tavolo.

«La volontà. La fede. La follia. Di fronte al dispiegamento di tecnologie, alle migliaia di agenti americani, una manciata di uomini determinati ha potuto sottrarsi a ogni sorveglianza. Perché nessuna macchina sarà mai forte come un cervello umano. Perché nessun funzionario che conduca una vita normale, che abbia ambizioni normali, potrà mai beccare un fanatico che se ne fotte della propria vita, che si immola per una causa superiore.»

Si ferma, riprende fiato, poi prosegue:

«I piloti kamikaze dell’11 settembre si erano depilati. Tu sai perché? Per essere perfettamente puri al momento di entrare in paradiso. Contro dei bastardi così, non possiamo fare niente. Né spiarli, né comprarli, né capirli.»

I suoi occhi brillano di un bagliore ambiguo.

«Te lo ripeto: c’è un solo modo per prendere questi fanatici. Trasformare uno di loro. Convertirlo per leggere la loro follia. Solo allora ci si potrà battere.»

Il Gigante Verde pianta i gomiti sulla tovaglia, appoggia le labbra sul suo bicchiere di rosso, poi alza i baffi in un sorriso:

«Ho una buona notizia per te. Da oggi il progetto Morpho riparte. Ti ho persino trovato un candidato», ghigna. «Anzi: una candidata.»

41.

«Io.»

La voce di Anna rimbalzò sul cemento come una pallina da ping-pong. Eric Ackermann le rivolse un debole sorriso. Era quasi un’ora che parlava senza fermarsi, seduto nella Volvo station wagon, la portiera aperta, le gambe fuori. Aveva la gola secca e avrebbe dato qualunque cosa per un bicchiere d’acqua.

Anna Heymes rimaneva immobile contro la colonna, come fosse un delicato graffito fatto con l’inchiostro di china. Mathilde Wilcrau continuava a fare avanti e indietro per azionare l’interruttore a tempo ogni volta che i neon si spegnevano.

Parlando, lui guardava l’una e l’altra. La piccola, pallida e nera, malgrado la sua giovane età, gli pareva d’una rigidità antica, quasi minerale. Al contrario, quella alta era vegetale, vibrante di una freschezza intatta. Mostrava ancora quella bocca troppo rossa, quei capelli troppo neri, quel contrasto di colori crudi che ricordava un banco del mercato.

Come poteva avere simili pensieri in quel momento? Sicuramente gli uomini di Charlier stavano battendo il quartiere palmo a palmo, assieme ai poliziotti del distretto, tutti alla sua ricerca. Battaglioni di poliziotti armati che volevano solo fargli la pelle. E quel bisogno di droga che aumentava, che si sommava alla sete toccando ogni particella del suo corpo…

Con tono più grave, Anna ripeté:

«Io…»

Tirò fuori dalla tasca un pacchetto di sigarette. Ackermann si arrischiò:

«Posso averne una?»

Lei accese la sua Marlboro poi, dopo una piccola esitazione, gliene offrì una. Nel momento in cui fece scattare l’accendino cadde l’oscurità. La fiamma penetrò il buio e impresse la scena come un negativo. Mathilde azionò di nuovo l’interruttore.

«Il seguito, Ackermann. Ci manca l’elemento principale: chi è Anna?»

Il tono era sempre minaccioso, ma privo di collera o di odio. Lui ora sapeva che le due donne non l’avrebbero ucciso. Non ci si improvvisa assassini. La sua confessione era volontaria e gli dava sollievo. Attese che il gusto del tabacco bruciato gli riempisse la gola, poi rispose:

«Io non so tutto, anzi… Da quello che mi hanno detto, tu ti chiami Sema Gokalp. Sei turca, operaia clandestina. Vieni dalla regione di Gaziantep, nel Sud dell’Anatolia. Lavori nel decimo arrondissement. Ti hanno portata all’istituto Henri-Becquerel il 16 novembre 2001, dopo un breve ricovero all’ospedale Sainte-Anne.»

Anna rimaneva impassibile, sempre appoggiata alla colonna. Le parole sembravano attraversarla senza effetti apparenti, come un bombardamento di particelle: invisibile ma mortale.

«Mi avete rapita?»

«Direi piuttosto trovata. Non so come sia successo. Uno scontro tra turchi, un saccheggio in un laboratorio del quartiere Strasbourg-Saint-Denis. Una storia di racket, non so esattamente. Quando i poliziotti sono arrivati, nel laboratorio non c’era più nessuno. Solo tu. Eri nascosta in un angolino…»

Respirò una boccata. Malgrado la nicotina, l’odore della paura persisteva.

«La questione è venuta alle orecchie di Charlier. Ha capito subito di avere in mano il soggetto ideale per tentare il progetto Morpho.»

«Perché “ideale”?»

«Senza permesso di soggiorno, senza famiglia, senza legami. E soprattutto in stato di choc.»

Ackermann lanciò un’occhiata a Mathilde; un’occhiata da specialista. Poi tornò ad Anna:

«Non so cosa tu abbia visto quella notte, ma doveva essere qualcosa di atroce. Eri completamente traumatizzata. Le tue membra erano ancora anchilosate per la catalessi tre giorni dopo il fatto. Sobbalzavi al minimo rumore. Ma la cosa più interessante è che il trauma ti aveva confuso la memoria. Sembravi incapace di ricordarti il tuo nome e quei pochi dati scritti sul tuo passaporto. Non la smettevi di mormorare parole senza senso. Quell’amnesia mi preparava il terreno. Avrei potuto impiantarti più rapidamente dei nuovi ricordi. Una cavia perfetta.»

Anna gridò:

«Bastardo!»

Lui annuì, chiudendo gli occhi, poi si riprese e, fedele al proprio ruolo, aggiunse con cinismo:

«E in più, tu parlavi un francese impeccabile. È stato questo dettaglio a dare l’idea a Charlier.»

«Quale idea?»

«All’inizio volevamo soltanto iniettare dei frammenti artificiali nella testa di un soggetto straniero, uno che fosse di una cultura differente. Volevamo vedere che risultati avrebbe dato. Ad esempio, modificare il credo religioso di un musulmano. O instillargli una ragione di risentimento. Ma con te si aprivano altre possibilità. Parlavi perfettamente la nostra lingua. Il tuo fisico era quello di un’europea scura di carnagione. Charlier ha puntato più in alto: un condizionamento totale. Cancellare la tua personalità e la tua cultura e sostituirla con un’identità da occidentale.»

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