Jean-Christophe Grangé - L'impero dei lupi

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Anna Heymes, moglie di un alto funzionario parigino, dopo un intervento di chirurgia estetica soffre di crisi di amnesia e di terribili allucinazioni. Alla ricerca della sua identità e del suo vero volto, incontra Paul, il giovane commissario che sta indagando sull’atroce omicidio di tre ragazze turche impiegate in un laboratorio clandestino. Paul ha chiesto l’aiuto di un poliziotto in pensione dal passato turbolento, Jean-Louis Schiffer, creando così una coppia eccentrica ma tenacissima.
Inizia così una vera e propria discesa agli inferi: un viaggio nei labirinti della mente dei protagonisti, ma anche in un mondo popolato da feroci assassini e trafficanti di immigrati
, oltre che da bande terroriste che vanno dai guerriglieri no-global ai Lupi grigi turchi.

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Ackermann era tornato in Francia sovraeccitato. Si immaginava già alla guida di un gruppo di ricerca multidisciplinare, una superstruttura che avrebbe riunito cartografi, neurologi, psichiatri, psicologi… Ora che il cervello consegnava le sue chiavi fisiologiche, diveniva possibile una collaborazione tra tutte le discipline. Il tempo delle rivalità era passato: bastava guardare la carta e unire le forze!

Ma le sue richieste di fondi erano rimaste lettera morta. Disgustato, disperato, era finito in un laboratorio minuscolo, a Maison-Alfort, dove era ricorso alle anfetamine per ritrovare il morale. Ben presto, gonfio di pastiglie di benzedrina, si era persuaso che la sua richiesta era stata scartata per semplice ignoranza e non per indifferenza: i poteri del Petscan erano ancora troppo poco conosciutisi era deciso a pubblicare tutti gli studi internazionali riguardanti la cartografia del cervello in un solo libro esaustivo. Aveva ripreso i suoi viaggi: Tokyo, Copenaghen, Boston… Aveva incontrato neurologi, biologi, radiologi, aveva decrittato i loro articoli, ne aveva fatto degli estratti. Nel 1992 aveva pubblicato un lavoro di seicento pagine: Radiodiagnostica funzionale e geografia cerebrale , un vero atlante che rivelava un mondo nuovo, una singolare geografia, punteggiata di continenti, di mari, di arcipelaghi…

Malgrado il successo del libro presso la comunità scientifica internazionale, le autorità francesi continuavano a mantenere il silenzio. Peggio, erano state installate due camere a positroni, a Orsay e a Lione, e nessuno aveva pensato a lui. Non una sola volta era stato consultato. Esploratore senza vascello, Ackermann era sprofondato sempre più nel suo universo di sintesi. Di quel periodo si ricordava i voli che, sotto l’effetto dell’ecstasy, lo avevano portato al di là di sé stesso, ma anche i gorghi che gli avevano aperto il cranio durante trip andati male.

Era al fondo di uno di quegli abissi quando aveva ricevuto la lettera del Commissariato per l’energia atomica.

Dapprima aveva creduto che il suo delirio stesse continuando. Poi si era arreso all’evidenza: era una risposta positiva. Poiché l’utilizzo della camera a positroni costringeva a iniettare un tracciante radioattivo, il CEA si interessava ai suoi lavori. C’era persino una commissione scientifica che desiderava incontrarlo per vedere in che misura il CEA poteva impegnarsi finanziariamente nel programma.

Eric Ackermann si era presentato la settimana successiva presso la sede di Fontenay-aux-Roses. Sorpresa: il comitato d’accoglienza era composto essenzialmente da militari. Il neurologo aveva sorriso. Quelle uniformi gli ricordavano la stagione ruggente, nel 1968, quando era maoista e picchiava i celerini sulle barricate della rue Gay-Lussac. A quella visione si sentì più che mai gasato. Tanto più che si era caricato con una manciata di benzedrina per vincere la paura. Se bisognava convincere quegli uccellacci grigi, allora avrebbe saputo lui come parlare…

La sua relazione era durata diverse ore. Aveva cominciato spiegando come l’utilizzo del Petscan avesse permesso, nel 1985, di identificare la zona della paura e come, ora che quella regione era nota, si poteva creare una farmacopea specifica per attenuare l’influenza della paura stessa.

Aveva raccontato tutto ciò a dei militari.

Poi aveva descritto i lavori del professor Jones; aveva parlato di come questi avesse localizzato il circuito neuronale del dolore. Aveva precisato che sarebbe stato possibile limitare la sofferenza, unendo questa localizzazione con un opportuno condizionamento psicologico.

Aveva illustrato le sue conclusioni a un comitato di generali e di psicologi dell’esercito.

Aveva poi chiamato in causa altre ricerche: sulla schizofrenia, sulla memoria, sull’immaginazione…

Aiutandosi abbondantemente con i gesti, con le statistiche, con citazioni di articoli vari, aveva fatto loro balenare delle possibilità uniche: grazie alla cartografia cerebrale si sarebbe potuto osservare, controllare, modellare il cervello umano!

Un mese più tardi aveva ricevuto un’altra convocazione. Avevano accettato di finanziare il suo progetto, a condizione che si installasse all’istituto Henri-Becquerel, un ospedale militare con sede a Orsay. Avrebbe dovuto collaborare con i colleghi dell’esercito in un clima di totale trasparenza.

Ackermann era scoppiato a ridere: avrebbe lavorato per il Ministero della difesa! Lui, il puro prodotto della controcultura degli anni Settanta, lo psichiatra scoppiato che si teneva su a forza di anfetamine… Si era convinto che avrebbe saputo essere più furbo dei suoi finanziatori, che avrebbe saputo manipolarli senza essere manipolato.

Si sbagliava di grosso.

Il campanello del telefono risuonò di nuovo nella stanza.

Lui non si prese neppure la briga di rispondere. Aprì le tende e si affacciò alla finestra. Le sentinelle erano sempre là.

L’avenue de Trudaine offriva una delicata gamma di tinte marroni: colore del fango secco, dell’oro antico, di metalli invecchiati. Ogni volta, quella strada gli faceva pensare, chissà perché, a un tempio tibetano o cinese, la cui pittura scrostata, gialla o rossiccia, rivelava la superficie di un’altra realtà.

Erano le sedici e il sole era ancora alto.

All’improvviso decise di non attendere la notte.

Era troppo impaziente di fuggire.

Attraversò il salone, prese la sua sacca da viaggio e aprì la porta.

Tutto era cominciato con la paura.

Tutto sarebbe finito con essa.

39.

Attraverso la scala d’emergenza, scese nel garage del proprio condominio. Fermo sulla porta scrutò la zona oscura: vuota. Attraversò il parcheggio, poi aprì una porta in lamiera nera, nascosta dietro una colonna. Percorse interamente un corridoio e arrivò alla stazione del metrò Anvers. Gettò un’occhiata dietro di sé: nessuno lo seguiva.

Nell’atrio della stazione, la folla dei viaggiatori gli diede un senso di panico, poi riuscì a razionalizzare: tutta quella gente non faceva altro che favorire la sua fuga. Si aprì un varco senza rallentare, lo sguardo fisso su una nuova porta, dall’altra parte dello spazio di ceramica.

Là, vicino all’apparecchio automatico per le fototessere, fingendo di aspettare l’uscita delle proprie foto, cercò il passepartout che si era procurato. Dopo qualche esitazione, trovò la chiave giusta e aprì discretamente la porta sulla quale c’era scritto: RISERVATO AL PERSONALE.

Con sollievo ritrovò la solitudine. Nel corridoio aleggiava un odore insistente; un effluvio acre, pregnante, che non riusciva a identificare e che sembrava avvilupparlo interamente. Si infilò nel cunicolo, urtando con i piedi scatole marce, cavi dimenticati e contenitori metallici. Non cercò mai di accendere la luce. Triturò serrature, aprì chiavistelli, cancelli, porte piombate. Non si prendeva neppure la pena di richiuderle a chiave, ma le sentiva accumularsi dietro di sé, come altrettanti strati di protezione.

Infine, penetrò nelle viscere di un secondo parcheggio, collocato sotto square d’Anvers. La replica esatta del primo, eccetto per il colore verde chiaro del pavimento e dei muri. Era deserto. Riprese il suo cammino. Era in un bagno di sudore, scosso dal tremito, e si sentiva alternativamente gelare e bruciare. Non era solo l’angoscia, lui li conosceva quei sintomi: la crisi d’astinenza.

Poi, al numero 2033, vide la Volvo station wagon. Il suo aspetto imponente, la carrozzeria grigio metallizzato, la targa del dipartimento dell’Alto Reno gli procurarono una sensazione di conforto. Gli parve che tutto il suo organismo riuscisse a stabilizzarsi, a trovare un punto d’equilibrio.

Da quando Anna aveva manifestato i primi disturbi, aveva capito che la situazione andava aggravandosi. Più di chiunque altro, sapeva che quegli attacchi si sarebbero moltiplicati e che, presto o tardi, il progetto si sarebbe trasformato in una catastrofe. Allora aveva immaginato una soluzione di ripiego. In un primo tempo tornare nella propria regione d’origine, l’Alsazia. Non potendo cambiare nome, si sarebbe confuso con gli altri Ackermann della Terra; più di trecento nei soli dipartimenti del Basso e dell’Alto Reno. Poi ci sarebbe stata la vera partenza: Brasile, Nuova Zelanda, Malesia…

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